Sono nata a Finale Emilia il 13 ottobre del 1946. La nostra era una famiglia povera, di braccianti. La mamma mi ha avuta quando era giovane in tempo di guerra. Mio papà era venuto dalla Russia con i tedeschi, ha collaborato con loro poi è venuto dalle nostre parti perché c’era la guerra e poi ha partecipato con i partigiani. È stato ucciso dai fascisti nel ’46. La liberazione era avvenuta nel ’45; mio papà e stato nascosto da una famiglia, poi non so cosa sia successo, una sera lo sono venuti a prendere a casa della mamma che era incinta di sette mesi e hanno detto: “Ti portiamo a Parma che devi fare un lavoro per noi.
Fascisti, partigiani, la mamma non ha mai capito niente.
Lo ha accompagnato alla stazione di Massa Finalese, è partito e non è mai più tornato. Mio padre era di Mosca, aveva una sorella, per trovarla abbiamo fatto ricerche tramite l’ambasciata, ma non hanno portato a nulla.
Ho vissuto con la nonna che è stata la mia guida, perché la mamma doveva lavorare per mantenermi. Eravamo in tredici in una casa, tanti fratelli, tanti zii, dormivamo in un granaio dove i vetri erano tappati con dei fogli di carta. Ho cominciato a lavorare che avevo nove anni, andavo ancora a scuola, avevamo del terreno come mezzadri e aiutavo la mamma, perché essendo senza papà dovevo aiutare. Di episodi spiacevoli della mia infanzia non ne ricordo, perché avevo una mamma bravissima che ho ancora e una nonna stupenda che mi ha insegnato tante cose. Abitavamo in un quartiere, le casette che dicevano le rosse. Eravamo tutti di sinistra, facevamo la guerra contro i ragazzini di Massa perché loro avevano i soldi e noi eravamo i poveretti. Questa sì che era una comunità, avevamo le porte aperte, io andavo a mangiare a casa di una mia amica e lei veniva a casa mia. Era d’un bello, d’un bello! Facevamo la Festa dell’Unità alle casette. Ho un bel ricordo di uno zio, fratello del nonno, che mi voleva molto bene e mi portava a casa sua a dormire, dormivo su quattr’ai e un cavalet con i cartocci delle pannocchie per materasso, ma a me piaceva.
Sono stati bei momenti, eravamo proprio una comunità, eravamo tutti assieme, tanta gioventù, tanti ragazzini, la fame non la pativamo perché, ripeto, se non mangiavamo a casa nostra andavamo a mangiare da un’altra parte…