Sono nata il 26\03\33. Ricordo che quando da piccoli andavamo a scuola a novembre avevamo le divise e si doveva urlare “ Ehilala”. Le ragazze avevano il cappellino del Duce e la frangetta, si davano arie, ma erano ignoranti al massimo. A quelli che non avevano niente gli davano l’olio di ricino, gli tagliavano i capelli e gli mettevano il catrame, il fascismo era quello lì. Alla sera nelle case c’era da spegnere la luce.
Avevo otto anni e cominciai ad avere quelle ghiandole, si intravedeva qualche cosa.
C’era un signore che andava sempre in Jugoslavia stava via degli anni, la sua famiglia era piena di oro: un giorno nel cortile lui mi venne vicino e mi toccò e mia mamma ha visto, gli ha detto: “ Ve, se tocchi mia figlia ti ammazzo!”. E lui le ha risposto: “Cosa vuoi che sia, noi coi bambini giochiamo al piattello!”. Questa è la memoria della guerra.
E., era un prete di Finale, nipote di mio padre, andava in biblioteca e diceva: “Quei libri no”. Poi è stato partigiano ed è stato torturato, ha lavorato alla camera del lavoro, era anche davanti all’ANSA Marmitte con gli operai, fece tanto lavoro. I fascisti l’hanno preso perché lui sapeva delle verità, l’hanno portato a Modena nei sotterranei: c’erano i topi, non riusciva a dir Messa. Ma le verità si possono sapere anche adesso.
Io avevo dodici anni, c’era un padrone della Bellentani, allora c’erano i padroni, che aveva bisogno di una bambina per badare ad un bambino. Mia mamma disse: “Sì, va bene, là starai bene”. Sono rimasta due anni, prendevo tanto poco, inoltre invece di badare ai bambini mi facevano lavare i pavimenti.
A quel tempo mio fratello lavorava saltuariamente alla Bellentani. Quando io sono andata a servizio da quel signore a Modena mio fratello è stato assunto in maniera fissa. Mia madre disse: “Se tu torni a casa adesso che tuo fratello è a posto vai in risaia”. Ci sono poi andata per sedici mesi, due volte l’anno. Quando tornavo andavo lì da D., da sua mamma, a tirar la canapa. Mi sono data da fare…