Intervista a Alberto Vincenzi

Avrei dovuto nascere a Massa o negli ospedali di San Felice o di Finale Emilia, ma poiché mia madre in gravidanza era diventata enorme e anch’io mi presentavo robusto, mio padre per precauzione la fece ricoverare in clinica a Modena, dove io Alberto Vincenzi venni alla luce il 15-11-1949, un giovanotto di ben sei chili e ottocento grammi, presso la clinica Barbanti, penso si chiamasse così dove rimasi pochi giorni, poi mi riportarono a Massa dove ho sempre vissuto e dove spero di rimanere fino alla fine.
La mia famiglia era composta da quattro persone: i miei genitori, io e una sorella di sette anni più giovane.
Mio padre faceva il mediatore di maiali proprio per la SAMIS BELLENTANI dove avrei lavorato anch’io più avanti negli anni, mia madre faceva la parrucchiera.
Abitavamo in un sobborgo di Massa dove conducevamo una vita normale, molto dignitosa anche se non eravamo ricchi.
Ho avuto un’ infanzia felice, mi piaceva la vita all’aria aperta, andare a pescare cosa che amo fare anche ora che sono in pensione.
La scuola non mi è mai piaciuta molto, per me era una perdita di tempo, un impegno che non ho svolto come avrei dovuto.
Ho frequentato la scuola dell’obbligo poi, a quei tempi e a casa mia im givan: “O che ad va a scola… oppure a lavorare”. A quindici anni ho incominciato la mia vita lavorativa come aiutante di un ambulante merciaio, facevamo i mercati, questo per per circa sei mesi, poi sono stato assunto alla Bellentani, era il 1965.
Il primo impatto con il nuovo lavoro è stato un po’ forte. Passare da un lavoro all’aria aperta con solo la compagnia del datore di lavoro, al contatto con il pubblico a un posto al chiuso, con altri colleghi molto più anziani di me e non era proprio il massimo anche perché ero stato assegnato al macello…


Intervista a Alfonso Vincenzi

Della mia infanzia ricordo episodi della guerra, i bombardamenti, i mitragliamenti, io ero un bambino e ricordo che avevamo i tedeschi in casa perché c’era l’occupazione e loro erano i padroni di casa.
Dopo ho frequentato l’asilo e mi ricordo che a volte uscivo a piedi, perché allora non c’era lo scuola- bus, ma si andava solo a piedi con il cestino della merenda e mio nonno, che faceva il mediatore anche lui, quando in piazza c’era l’ambulante che faceva il gnocco di castagne me ne comprava un pezzo. Per me era una grande festa perché allora era un lusso, anche se ora è una cosa banalissima e se lo offro a mio nipote mi dice: “Che schifo”.
In quel periodo non c’era abbondanza, per niente, perché si mangiavano maccheroncini con i fagioli e per cambiare fagioli con i maccheroncini. Poi mi ricordo che c’erano le mele campanine che si mettevano sul tetto del pollaio a prendere il sole per poterle mangiare per tutto l’anno: si mangiavano sempre le più marce, perché bisognava portarle avanti il più possibile. L’ abbondanza era quella. Si faceva il pane in casa e a volte si scambiava la farina con il pane già fatto. C’era il cinema, ma ci volevano due soldi e io andavo solo qualche volta: alla domenica mio padre mi accompagnava e mentre lui andava al bar lì vicino, io andavo a veder i film di Tarzan.
I miei genitori erano quelli che si dicevano dei “camaranti”, oltre a loro nella mia famiglia c’eravamo: io, mio fratello più grande di dieci anni, che poi andò militare durante la guerra e mia sorella più piccola. Mia madre faceva la sarta e mio padre andava in giro in piazza perché era una specie di mediatore, ma non si sapeva bene cosa fosse, trafficava, non aveva un lavoro fisso.
Oggi ci siamo ancora noi tre fratelli, mio fratello più vecchio che ha ottantasei anni, io ne ho settantasei, mia sorella ne ha settantatré, ma sono dieci anni che è inferma a letto. Sono sposato, avevo due figli, ma uno è morto in un incidente stradale nel millenovecentoottantuno, l’altro vive ancora in casa con me, è sposato e ha una figlia di diciannove anni.
Mi ricordo che quando frequentavo le elementari io ero un balilla e facevamo le adunate davanti alla casa del fascio, in classe avevamo l’altoparlante perché quando parlava Mussolini bisognava mettersi tutti sull’attenti, roba che se adesso la racconti ai giovani gli scappa da ridere. Dicono che noi eravamo degli imbranati che non sapevamo… Io ho frequentato fino alla quinta elementare, dopo c’era la scuola di agraria, ma io ero negato per lo studio, quindi sono andato a fare il meccanico da biciclette.
Un giorno ho chiesto a M. se mi prendeva a lavorare alla Bellentani, subito mi ha fatto dei “mi, mo”, ma poi un giorno lo incontrai sul ponte, mi fermò e mi chiese cosa stavo facendo, se lavoravo, gli risposi che stavo preparando le carte per ritornare in Francia, ma lui mi disse di aspettare un attimo che il lunedì avrebbe parlato con C., che era il capo della Bellentani…


Intervista a Giuseppe Vincenzi

Sono nato a Massa Finalese nel 1950, ho sessantuno anni.
Ho lavorato alla Bellentani dal ’66 al ’79, poi ho operato nel sindacato come Responsabile di zona e provinciale degli alimentaristi della CGIL, successivamente ho fatto esperienze in amministrazione comunale a Finale E., poi nel partito PDS e DS a Modena gestendo le feste dell’Unità provinciale. Adesso sono pensionato e cerco di godermi la pensione facendo il volontario ancora per le feste dell’Unità.
La mia famiglia era tutta di operai: il nonno lavorava in un mulino, il papà e lo zio lavoravano alla Bellentani, la nonna lavorava saltuariamente in campagna, mia madre è sempre stata casalinga.
Ho sempre abitato in centro, Massa è piccola, è un grosso incrocio dove è cresciuto un paese.
Avevo una sorella, che purtroppo è morta nel ’91.
A ventiquattro anni anni mi sono sposato e sono andato ad abitare fuori casa,
cominciando così una vita autonoma, ma ho sempre abitato a trecento metri circa dalla famiglia dei miei genitori.
Il ritrovo della mia compagnia era spesso un bar, era qua davanti, adesso è chiuso, era un grosso bar, si chiamava Bar Molinari e da lì partivamo per andare in qualche fiera, a ballare la domenica, andare in giro in bicicletta nella valle a mangiare il cocomero, d’estate ci trovavamo nei giardini davanti alle scuole elementari, oggi chiuse, è rimasto solo il monumento ai caduti dei giardini di allora, da lì si partiva in bicicletta o in motorino per andare nei paesi limitrofi a vedere altri motorini, a trovare altre compagnie.
In seguito ho trovato una compagnia a due/tre km da Massa, perché ero diventato amico di altri ragazzi che lavoravano alla Bellentani e abitavano qui in una frazione.
Suonavamo la chitarra, cantavamo in compagnia, giocavamo al pallone, a carte e così si passavano le serate. Di giorno si lavorava e la sera ci si trovava al bar per parlare di sport, di politica, di sindacato.
Fino al ’70 fu un periodo tranquillo. Poi con la prima scossa alla Bellentani del ’70 la situazione è diventata un po’ pesante, abbiamo occupato la fabbrica…


Intervista a Lorenzo Simoni

Sono nato a Finale Emilia il 7 dicembre 1922. Mia madre a causa della spagnola, era rimasta orfana con una sorella. Mio padre era presidente della provincia di Ferrara.
Oltre a me ebbero due femmine, una più grande di me di tre anni ed una minore di uno. Quando si sposarono mio padre prese un piccolo fondo in affitto, ma ebbe la sfortuna che il maiale e i bovini che allevava morirono, così la sua iniziativa fallì e rimasero in miseria. La nostra casa era composta da una camera e una cucina e basta.
Mio padre partì per la guerra di Libia e tornò dopo sette anni ammalato e nel 1929, a soli trentasei anni morì. Mia madre rimase da sola con noi tre figli ed una zia malata di rachitismo che faceva la domestica. La vita era molto dura. Io avevo solo sette anni e ho rischiato di patire la fame. Avevo uno zio che abitava a Montemerlo nel ferrarese e faceva il bovaro, aveva le bestie, le galline. Quando tornavo da scuola andavo da lui, aravo la terra e in cambio avevo di chè mangiare. La zia che faceva la domestica contribuiva al nostro sostentamento portandoci a casa i resti dei pasti dei signori dove era a servizio.
Il nostro divertimento di bambini era di correre nei fossi di sera e di raccontarci le storie. L’unica festa era il giorno dei morti, quando andavamo con la mamma a far visita al cimitero e lei ci comprava un chilo di castagne: era una gran festa avere le castagne, perché se volevamo la frutta dovevamo andarla a rubare sugli alberi, rubavamo per la necessità di mangiare, non perché volessimo rubare. Era una brutta vita.
Non ho un bel ricordo della scuola. Ho frequentato fino alla quinta elementare. I primi tre anni, quando abitavo in campagna, avevo una maestra che ricordo come buona, abitava nella scuola e sua figlia ci portava i colori perché noi non li avevamo. Io avevo una cartella fatta di sacco. Ricordo il tanto tempo passato a fare le aste dritte, non imparavo niente!
Quando siamo venuti ad abitare a Massa, frequentavo la quarta elementare e il mio maestro si chiamava Leonardi, era un grande antifascista. Nella classe il maestro indicava i capofila che tutte le mattine avevano il compito di passare tra i banchi a controllare che sui quaderni non ci fossero macchie, nel qual caso erano botte. Però ci insegnava.
In quinta elementare il maestro era Gallini. Vicino alla cattedra aveva tre bastoni: bianco, rosso e verde che rappresentavano il fascismo. Ci diceva: “Dovete prendere esempio da me, io ero un socialista e quando è venuto il fascismo sono diventato fascista, così ho risolto il problema”. Questa brutta frase mi è rimasta sempre nella mente…


Intervista a Marta Serafini

Sono nata a Massa Finalese 27/07/1941. Mi ricordo della mia infanzia soprattutto la miseria, però non ci è mai mancato il necessario. Mi ricordo di mi madre che era una donna forte, coraggiosa, una grande lavoratrice, però capivo i sacrifici che faceva per non farci mancare le cose di prima necessità. Io sono figlia di N.N.: mio padre che era separato dalla prima moglie ha sempre vissuto con me e mia madre e mia sorella, quindi eravamo una famiglia di fatto come adesso ce ne sono tante. A quei tempi essere figlia di genitore sconosciuto, faceva sentire a disagio a scuola e in altre occasioni dove bisognava avere una paternità certa. Mia sorella è figlia della prima moglie di mio padre, ha due anni più di me e siamo sempre cresciute insieme senza mai saperlo. Siamo sempre stati una famiglia molto unita, tanto che io e mia sorella ci vogliamo molto bene e abitando nella stessa via in due villette vicine, tutti i giorni ci troviamo a prendere il caffè, una settimana a casa mia, una settimana a casa sua. I miei genitori facevano gli operai; erano terziari coltivavano barbabietole e frumento, con le barbabietole pagavano le spese e con il frumento avevano la farina per fare il pane d’inverno. Due volte all’anno andavano a fare la campagna del riso nel torinese e noi eravamo affidate ai nonni che abitavano nella stessa casa. Avevo cinque anni e mi ricordo che anche noi due figlie siamo andate su con loro, perché i nonni erano ammalati. Ricordo una cascina tanto grande che c’erano trecento donne.. Con i soldi che prendevano, si pagavano i debiti e si comprava la legna per l’inverno… e rimanevano senza dopo venti giorni, dopo riprendevano ancora a fare i debiti e tornavano in risaia. Mi ricordo che la casa dove abitavamo era grande e abitata da
altre sei famiglie. Noi abitavamo in due camere; un cucinotto e una camera da letto.
Mio papà aveva tirato una tenda nella camera da letto che era grandissima; da una parte dormivamo io, mia sorella, i nonni e la zia, dall’altra parte il papà e la mamma, lo spazio minimo per un letto. Io sono rimasta senza mia madre che avevo quindici anni e mio padre è morto che ne avevo sedici. Sono entrata alla Samis che avevo quindici anni e mezzo, alla Bellentani. Ho fatto un anno di risaia che avevo quattordici anni e poi son venuta a casa perché prendevano delle ragazze. Però quando mi sono presentata alla Bellentani mi hanno detto: “Le abbiamo prese tutte otto ci dispiace, ma sei arrivata in ritardo, non c’è più posto”. Per mia fortuna c’era una impiegata che d’estate tenevo la sua bambina, allora è andata a parlare con i proprietari e gli ha detto: “Avete fatto male a non prenderla perché è una brava ragazza”. Allora m’hanno richiamata indietro e poi mi hanno preso…


Intervista a Giacomina Righini

Sono nata il 18/12/27 a Massa Finalese, a Massa sono venuta che avevo sei mesi, sono nata a C. Mio papà faceva il sarto ed è venuto qui a Massa prima lui della famiglia per avviare il suo lavoro da sarto, poi siamo venute noi, mia madre e tre sorelle oltre me. Abbiamo preso casa in centro a Massa, la stessa casa che poi ha comprato mia sorella M. quando ha cominciato a lavorare e lì abbiamo fatto il nostro nucleo familiare. Mia mamma aveva anche un cognato che era il fratello del papà che non aveva la testa a posto e mia nonna prima di morire le ha detto: “Marina, so che tu sei la migliore di tutte le mie nuore, mi prendi F., che lo tieni tu?”. E mia mamma l’ha preso, con lei andava d’accordo e sempre le dava ragione. Quando lei diceva: “Devi fare qui, devi fare là”. Lui rispondeva: “Sì, sì Marina quel ca d’gi vu’, mi al fag!”. Era una persona un po’ semplicina, ma aveva anche lui il suo caratterino. Era molto bravo a fare le asole e le finiture dei vestiti, così aiutava mio padre. Qui a Massa sono nate altre tre sorelle e alla fine eravamo sette e la mamma ha fatto anche due aborti che erano altre due femmine.
La nostra famiglia era così composta da dieci persone e mio papà con solo il sarto da fare e con la gente che una volta pagava, una volta no, una volta portavano una gallina, ma il pane bisognava prenderlo. Appena un po’ cresciute ci diceva: “In casa non vi voglio, dovete andare fuori e raccogliere quello che c’è in campagna”.
Ho cominciato da piccola ad andare a spighe quando mietevano. A volte trovavo, altre no e così quando andavo a legna, capitava che ci fossero le fascine già fatte e qualcuna la portavo via. Ero svelta e riuscivo sempre a portare a casa qualcosa. A quindici anni mia madre mi ha fatto andare in Piemonte, ma con il sole e l’acqua ero debole in maniera che sempre cadevo per terra. Così il principale della risaia mi ha detto: “No tu G. non vieni giù, stai in infermeria e ti faccio fare dei lavori più leggeri”. Mi volevano bene tutti, perché ero piccolina, magra, un brutto lavoro!
Quando sono tornata la mamma mi ha detto: “No, tu in risaia non ci vai più e vai a scuola a Mirandola di stenodattilografia, poi vediamo”…


Intervista a Giuseppe Remondi

Alla Bellentani eravamo una bella squadra. Allora noi non volevamo fare i primi della classe durante il contratto di lavoro: “A go ancora l’ultimo librino… chissà an du lè…”
Perché sarebbe stata la fortuna del paese. Questi avevano delle idee grandi, volevano fare di questa azienda una grande alimentare e con le sue basi di qualità, di esperienze incredibile, ce la potevano fare. Era un’azienda che ha dato da lavorare ai padri e ai figli, c’erano una tradizione e una ricchezza di professionalità che non avrebbero trovato in altri posti e soprattutto era conosciuta nel mondo perché avevano sessanta licenze di esportazione in tutto il mondo, rifornivamo le ambasciate, le nostre ambasciate a Hon Kong e tante altre, con prodotti tipici che costavano molti soldi. Però è stata una gestione, quella della Ecron, che non ha tenuto conto del particolare che qui si lavorava della carne e non del ferro e lavorarla in un modo o lavorarla in un altro, c’è una differenza. Per esempio, le celle frigorifere: un conto era raffreddarle a serpentina, come avevamo, e il calo della carne era minima, un conto quando hanno fatto tutte queste celle nuove con il raffreddamento ad aria che asciugava la carne. Così, c’era una perdita di peso di valore incredibile, oltre al fatto che a lavorare la carne diventava molto più complicato, hanno fatto degli errori come quello del macello o quello di aver fatto sessanta capetti.
Prima funzionava così: c’era il capo fabbrica, poi c’era il caporeparto budella, il capo reparto lavorazioni, il caporeparto salami, un altro capo reparto o due e po’ basta.
Arrivano questi e prendono sessanta persone indicate da non si sa chi e le mettono a capo di ogni tavolata di chi monta la carne, e una volta la settimana le chiamano nella villa di là, a fare delle riunioni, gli avevano messo delle S come Superiori che li indicavano e quindi c’era un caos totale, oltre alla perdita di produttività, perché questa gente veniva staccata dal lavoro per andare là dentro a fare le riunioni. Volevano fare un grosso Crail Aziendale. Non si rendevano conto che avevamo trecento operai e una ottantina di impiegati o cento, non so neanche più. Questa cosa gli è scoppiata in mano perché non tenevano conto della storia di questa azienda, è stato un salto nel buio, è stato questo il dramma…


Intervista a Cesare Remondi

Sono nato a Massa Finalese il 16 febbraio 1934. Sono il primo di cinque figli venuti al mondo nell’arco di un decennio. Dopo di me, M. nel ’37, G. nel ’39, A. nel ’40 e G. nel ’44. Il papà Lelio, nato nel 1910, faceva il birocciaio e la mamma Elena, nata nel 1912, nel limite del possibile, data la dimensione della famiglia, la bracciante agricola.
Come figlio più grande prestissimo è stato necessario il mio contributo nei lavori di casa e nell’accudimento dei piccoli della “tribù” dei R..
Oggi, a settantotto anni, posso dire di essermi occupato di politica per tutta la vita. Questa estrema sintesi mi serve come premessa alla ricerca nei ricordi della prima infanzia e dell’adolescenza, del filo conduttore e degli elementi primordiali che via via sono stati alla base del mio impegno politico e sociale.
Il 10 giugno 1940, quando avevo sei anni e non avevo ancora iniziato a frequentare la scuola elementare (sono entrato in prima elementare l’anno successivo), vestito di tutto punto con la divisa di “figlio della lupa”, fui portato in piazza a Massa Finalese per ascoltare la dichiarazione di guerra di B.Mussolini alla Francia e al Regno Unito.
Si trattava della manifestazione del regime a piazza Venezia trasmessa via radio che giungeva a noi tramite gli altoparlanti collocati sul balcone della “Casa del Fascio”.
In questo modo l’entusiasmo di Roma veniva diffuso in tutto il Paese così come la certezza della vittoria finale delle potenze dell’asse Italia-Germania-Giappone.
Questo clima mi aveva contagiato e la certezza della vittoria me l’ero portata a casa.
A spegnere rapidamente il mio entusiasmo ci pensò mio padre.
La ragione è presto detta: pochi giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia il mio papà venne richiamato alle armi e inviato sul fronte francese. Per fortuna la sua partecipazione alla guerra durò pochi mesi grazie alla disposizione di legge che prevedeva il congedo in presenza di quattro figli minori (il 10 ottobre è nata A.).
Ecco un momento di grande e consapevole felicità: il giorno che i ragazzi del nostro cortile intravidero l’arrivo di mio padre e gridarono davanti alle nostre finestre: “É tornato Lelio!”.
I primi ricordi di sentimenti antifascisti risalgono al 25 luglio 1943 (caduta del fascismo) e ai giorni seguenti. In particolare ricordo le serate nelle quali, in cortile, ci riunivamo attorno ad alcune operaie della SAMIS che rievocavano le grandi lotte sociali che avevano preceduto l’avvento del fascismo. Serate che si concludevano con il canto di “Bandiera Rossa” che io sentivo per la prima volta…


Intervista a Ermes Malaguti

Sono nato a Finale Emilia il 29 Gennaio 1920, ho quindi novantuno anni.
La mia era una famiglia contadina numerosa, è stata composta anche da dodici persone di cui sei, anzi sette figli: uno è morto di “spagnola” durante la guerra.
Della mia infanzia e fanciullezza ricordo in modo particolare, la fatica di sbarcare il
lunario, mio padre era bracciante e spesso, quando il maltempo rovinava il raccolto e le malattie uccidevano il bestiame, ci caricavamo di debiti ed eravamo costretti a cambiare di casa e di podere, ricordo di aver abitato tra l’altro in una casa verso la Ca Bianca e nella valle a Santa Tarquinia.
Ma cambiavamo casa anche quando le cose andavano bene perché, se la “stima” cioè il valore dei raccolti e del bestiame ci era favorevole, cambiavamo padrone e coi soldi guadagnati saldavamo parte dei debiti che pagavamo anche con il ricavato della raccolta della canapa. Benedetta canapa che ci permetteva di comprare qualche capo di vestiario e di mettere da parte qualcosa per i tempi duri che inevitabilmente capitavano.
Ricordo anche la fame, un anno in particolare, mi pare fosse il ’29, quando fece così freddo, non avevamo soldi a sufficienza per il frumento, quindi abbiamo comprato e mangiato diciassette quintali di granoturco e di polenta, poi polenta e ancora polenta e spesso fredda perché il fuoco stava acceso poche ore e per scaldarci andavamo nella stalla. Voi non potete immaginare cosa fosse mangiare sempre polenta fredda…solo chi l’ha provato può capire.
Come conseguenza dei nostri continui traslochi, ho cambiato parecchie scuole e
insegnanti, ognuno aveva un modo diverso di spiegare le cose. Questo unito al fatto che dovevo fare cinque o sei chilometri a piedi per andare e tornare, spiega che a scuola mi sono sempre trovato male anche perché avevo l’impressione che non mi insegnassero le cose giuste per affrontare la vita reale…


Intervista a Graziana Guerzoni

Sono nata il 25 aprile del 1937 a Massa Finalese e ho sempre abitato a Massa, questo è il mio paese di origine. Sono sposata con F. B. che ha fatto il sindacalista per quaranta anni per la CGIL, una persona conosciuta qui, a Modena, dappertutto. Ho tre figli: uno di cinquanta anni, una di quarantasette e uno di trentanove. La mia infanzia è stata dolorosissima. Mio padre l’ho conosciuto un anno, perché quando sono nata io era militare, dopo si è ammalato ed è morto. Io ho vissuto con mia nonna, con mia madre, le mie zie e un fratellino che è nato nel periodo in cui mio padre si è ammalato. Era una famiglia di operai, di camarant, nullatenenti, poverissimi, però abbiamo tirato avanti sempre onestamente. Mia mamma lavorava nei campi e poi ha lavorato anche lei alla Bellentani parecchi anni quando c’era proprietario il sig. Bergamini, il padrone in assoluto, poi venne licenziata e non so i motivi perché ero ancora una bambina e tornò a fare la bracciante. Quando rimase vedova nel ’52 e io avevo quindici anni e il mio fratellino cinque anni, la ripresero a lavorare alla Bellentani per parecchi anni, finché non è andata in pensione.
Io ho fatto la prima avviamento, poi ho dovuto smettere di andare a scuola perché dovevo tenere dietro a mio fratellino. Sono andata in risaia a diciannove anni, mi sono ammalata purtroppo e ho fatto un anno e mezzo di sanatorio. Sono stata sempre delicata, avevo avuto dei precedenti, perché mio padre era morto di tubercolosi. Sono andata in risaia perché volevo comprarmi la macchina da fare la magliaia, bisognava darsi da fare. Invece dopo dieci giorni di risaia, dopo una giornata piena di acqua mi sono malata e sono venuta a casa. Ho fatto tre mesi all’ospedale civile di Finale e poi diciannove mesi a Gaiato. Ho sempre avuto una salute molto delicata, però ho avuto la fortuna di incontrare mio marito, una brava persona, una persona seria, un vero politico di sinistra che ha trasmesso a tutti noi, anche ai miei figli quello che lui riteneva giusto: condurre una vita onesta senza nessun equivoco, sottintesi, essere persone chiare e molto oneste. Questo è ciò che ha dato un significato alla mia vita.
La mia infanzia è stata talmente brutta che è meglio non ricordarla. Ho vissuto con la nonna che ci ha fatto anche da mamma e ci ha dato anche lei insegnamenti positivi con una morale molto chiara, molto pulita. Ho bellissimi ricordi della scuola e delle persone di Massa. Con le mie compagne per un po’ ci siamo anche riunite, ma poi ci siamo un po’ perse di vista perché uno va da una parte, uno dall’altra. Avendo io avuto dei problemi mi hanno sempre voluto bene e tuttora sono giudicata una persona perbene. Mi emoziono un po’ a ricordare momenti tristi, però lo faccio volentieri…


Intervista a Angelo Govoni

Sono nato a Finale Emilia e ho lavorato alla Bellentani dal 1966 fino al 1982.
Ho avuto un’infanzia felice, allora era molto diverso da adesso, c’era molta più povertà, perché lavorava solo mio padre, mia madre aveva dei problemi di salute e così mio padre lavorava a settimana la terra sotto Mattioli, gli dicevano Mattioli era uno di Finale Emilia che aveva della terra un po’ da per tutto qua da noi. Ma i miei genitori quel minimo non me l’hanno mai fatto mancare.
Della mia infanzia ricordo che allora usava andare all’asilo parrocchiale e una volta quando mi hanno portato all’asilo non ci volevo stare e sono scappato a casa. Perché essendo io sempre stato in campagna e quando mi portavano da qualche parte non ci volevo andare, avevo paura e preferivo restare da solo. Mio padre non riusciva a capire perché ero scappato e, mentre mi diceva che all’asilo dovevo comunque andarci, mi diede una pacca nel sedere e…ricordo che allora costumava il cestino per la merenda, e quando mio padre mi ha picchiato il cestino si è aperto in casa e quel po’ di pane e la mela sono ruzzolati sul pavimento e per me è stato veramente umiliante.
La mia famiglia era composta da mio papà, da mia mamma, da me e da mia sorella che ha cinque anni più di me. Abitavamo in una casa in affitto.
Allora non era facile perché a quei tempi c’erano degli scioperi che duravano anche più di venti giorni. Mio padre, sì, andava in campagna, ma mi ricordo che non faceva tutti gli scioperi perché allora mia madre che aveva le flebiti nelle gambe non lavorava, allora era una malattia non conosciuta come adesso, e aveva delle piaghe e non riusciva a lavorare, non riusciva a dare un contributo alla famiglia.
Mio papà era l’unico che lavorava e in estate aveva preso anche in affitto della terra e la lavorava alla sera d’estate e lo aiutavamo io e un po’ mia madre. Erano sei biolche di terra in affitto ma poi alla fine gli rimaneva ben poco perché la parte maggiore andava al padrone c’era una parola che si diceva amzadar, significava che subito una metà del raccolto andava al padrone, poi all’altra metà si toglievano le spese sostenute e quello che rimaneva veniva diviso ancora a metà tra mio padre e il padrone…veramente uno sfruttamento indegno!…


Intervista a Ivana Golinelli

Sono nata a Finale Emilia il 13 ottobre del 1946. La nostra era una famiglia povera, di braccianti. La mamma mi ha avuta quando era giovane in tempo di guerra. Mio papà era venuto dalla Russia con i tedeschi, ha collaborato con loro poi è venuto dalle nostre parti perché c’era la guerra e poi ha partecipato con i partigiani. È stato ucciso dai fascisti nel ’46. La liberazione era avvenuta nel ’45; mio papà e stato nascosto da una famiglia, poi non so cosa sia successo, una sera lo sono venuti a prendere a casa della mamma che era incinta di sette mesi e hanno detto: “Ti portiamo a Parma che devi fare un lavoro per noi.
Fascisti, partigiani, la mamma non ha mai capito niente.
Lo ha accompagnato alla stazione di Massa Finalese, è partito e non è mai più tornato. Mio padre era di Mosca, aveva una sorella, per trovarla abbiamo fatto ricerche tramite l’ambasciata, ma non hanno portato a nulla.
Ho vissuto con la nonna che è stata la mia guida, perché la mamma doveva lavorare per mantenermi. Eravamo in tredici in una casa, tanti fratelli, tanti zii, dormivamo in un granaio dove i vetri erano tappati con dei fogli di carta. Ho cominciato a lavorare che avevo nove anni, andavo ancora a scuola, avevamo del terreno come mezzadri e aiutavo la mamma, perché essendo senza papà dovevo aiutare. Di episodi spiacevoli della mia infanzia non ne ricordo, perché avevo una mamma bravissima che ho ancora e una nonna stupenda che mi ha insegnato tante cose. Abitavamo in un quartiere, le casette che dicevano le rosse. Eravamo tutti di sinistra, facevamo la guerra contro i ragazzini di Massa perché loro avevano i soldi e noi eravamo i poveretti. Questa sì che era una comunità, avevamo le porte aperte, io andavo a mangiare a casa di una mia amica e lei veniva a casa mia. Era d’un bello, d’un bello! Facevamo la Festa dell’Unità alle casette. Ho un bel ricordo di uno zio, fratello del nonno, che mi voleva molto bene e mi portava a casa sua a dormire, dormivo su quattr’ai e un cavalet con i cartocci delle pannocchie per materasso, ma a me piaceva.
Sono stati bei momenti, eravamo proprio una comunità, eravamo tutti assieme, tanta gioventù, tanti ragazzini, la fame non la pativamo perché, ripeto, se non mangiavamo a casa nostra andavamo a mangiare da un’altra parte…