Valdevit
La Valdevit Giovanni & C. inizia la sua attività nel 1934 come fonderia di ghisa di seconda fusione di proprietà dell’imprenditore Giovanni Valdevit.
Inizialmente va ad occupare uno stabilimento in via M. Fanti, ma nel 1938 si trasferisce in via C. Razzaboni, 80. Come nel caso delle imprese del gruppo Orsi, durante la guerra anche la Valdevit conosce un notevole sviluppo grazie alle commesse pubbliche e alle personali simpatie del suo proprietario per il Regime. Eliseo Ferrari, che nel 1948 diventerà segretario della FIOM cittadina, ricorda a questo proposito che nel periodo bellico Valdevit si presentava in fabbrica in orbace, la divisa dei gerarchi fascisti.
Lo stabilimento non viene bombardato e i macchinari, trasportati altrove nell’ultimo periodo del conflitto, rientrano alla fine del ‘45 consentendo subito la ripresa della produzione.
Nel 1948, contestualmente alle pressioni padronali per un ritorno al cottimo individuale, l’azienda nega l’autorità della Commissione interna in carica e annuncia il licenziamento di sei attivisti sindacali e due membri della Commissione interna. Alla non collaborazione da parte del sindacato segue la serrata della fabbrica al termine della quale saranno licenziati tutti i dipendenti, che allora erano 275, per essere sostituiti con operai non sindacalizzati.
Nel 1950 parte dei lavoratori licenziati si uniscono nella Cooperativa Fonditori che troverà sede, grazie al sostegno del Comune e del sindaco Alfeo Corassori, in un vecchio lavatoio in disuso; l’ingresso delle nuove maestranze invece, con minore esperienza nel settore della metallurgia, porta ad un calo della qualità delle lavorazioni e alla progressiva perdita di clienti.
L’impresa termina la sua attività alla metà degli anni Ottanta e nel 1988 la società viene messa in liquidazione.
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FONTI
BIBLIOGRAFIA
Lorenzo Bertucelli, “Costruire la democrazia”. La Camera del lavoro di Modena (1945-1962) in Lorenzo Bertucelli, Claudia Finetti, Marco Minardi, Amedeo Osti Guerrazzi, Un secolo di Sindacato. La Camera del lavoro a Modena nel Novecento, Roma, Ediesse, 2001
Bruno Bigi, La FIAT a Modena dalla ricostruzione ai licenziamenti del 1955, tesi di laurea, Università di Modena, Facoltà di Economia e Commercio, rel. Sebastiano Brusco, a.a 1983-1984, pp. 161-175
Eliseo Ferrari, A sangue freddo. Modena 9 gennaio 1950. Cronaca di un eccidio, Edizioni LibErtà, 2004
Lapide ai caduti delle Acciaierie e Ferriere
A conclusione del lavoro iniziato con la ricerca preliminare al volume edito nel 2013 “Il lavoro raccontato. Acciaierie e Maserati: due fabbriche modenesi dal dopoguerra ad oggi”, il 31 ottobre 2018 è stata scoperta la lapide in memoria dei caduti alle ex Acciaierie e Ferriere di Modena nel piazzale costruito in corrispondenza dell’area prima occupata dalla fabbrica.
Si tratta di un manufatto risalente agli anni Cinquanta salvato dalla demolizione delle Acciaierie e ritrovato ancora intatto dai pensionati di CGIL, CISL e UIL durante il lavoro di interviste in preparazione al volume nel biennio 2011-2013.
La targa riporta il seguente testo:
LE ACCIAIERIE DI MODENA E LE MAESTRANZE DELLO STABILIMENTO RICORDANO I LAVORATORI CADUTI
PER EVENTI BELLICI
CAVANI RENZO, CAVALIERI GIUSEPPE, FEDERZONI GINO, GASPARINI OFELIA, GAZZETTI ATTILIO, GUIDETTI ALDO, MALAVASI ANTONIO, MARCHESI ONELIO, MESCHIARI ALBERTO, MONTORSI GIUSEPPE, PAGANI TOMASO, PULGA RICCARDO, RICCò ROLANDO, SACCHETTI WANDA, SALVALAI ALBERTO, SIMONINI ALBERTO, STEFANI ERMANNO
SUL LAVORO
BERTONI AURELIO, STEFANI ARGELIDO, ROMAGNOLI OTELLO, RONCAGLIA GREGORIO, CARLI CESARE, MENOZZI GIUSEPPE, TAVERNI CARLO, BERGONZINI VASCO, BRANDOLI BRUNO, SOLMI RINO, BOMBARDA FRANCESCO, DELLA CASA NINO
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BIBLIOGRAFIA
Anna Maria Pedretti (a cura di), Il lavoro raccontato. Acciaierie e Maserati: due fabbriche modenesi dal dopoguerra a oggi, Bologna, Editrice Socialmente, 2013
Fabbrica Candele Accumulatori Maserati
Quando la famiglia Orsi acquista la Maserati e sposta a Modena nei nuovi stabilimenti di viale Ciro Menotti la produzione di vetture e macchine utensili, trasferisce anche un’attività di più modeste proporzioni relativa alla produzione di candele di accensione per motori a scoppio, in via Generale Paolucci, denominata Fabbrica Candele Accumulatori S.A.
Durante la guerra l’attività viene riconvertita affiancando alla produzione di macchine utensili quella di motocarri elettrici e la revisione di veicoli militari. Dopo la fusione con la “Accumulatori Garbarino S.A.” di Genova nel 1940 si aggiunge anche la fabbricazione di accumulatori elettrici.
Nel giugno 1945 la Commissione interna dello stabilimento denuncia la volontà di Adolfo Orsi di non riavviare a Modena la produzione, rivendicando il ritorno delle macchine che erano state trasferite per ordine del comando tedesco a Villa Guardia di Como nell’agosto 1944.
Durante gli ultimi mesi del 1948 Orsi ordina 380 licenziamenti complessivi nelle due fabbriche Maserati. Alla dimostrazione di non collaborazione da parte dei sindacati, il 5 febbraio dell’anno successivo viene annunciata la serrata della Alfieri Maserati e della Candele Maserati. Si tradurrà in una sconfitta per la FIOM, costretta ad accettare i licenziamenti e, soprattutto, a lasciare alla direzione la determinazione delle necessità di personale da assumere una volta riavviata la produzione.
Nei primi anni Cinquanta il consiglio di amministrazione prende la decisione di allargare la propria gamma di prodotti ed entrare nel settore motociclistico. L’operazione si concretizza con l’acquisto nel 1953 dell’Italmoto di Bologna.
Mentre questa nuova strada trova in un primo periodo un mercato in grande crescita, soprattutto in virtù della popolarità che la Casa aveva maturato in campo automobilistico, nel settore elettrico (candele e batterie) in forte espansione, la Maserati va incontro a difficoltà. Già alla fine del decennio anche il settore moto deve far fronte ad una concorrenza sempre più agguerrita. La domanda entra in una fase stagnante e nel 1958 il consiglio di amministrazione denuncia lo stato di crisi che porterà alla definitiva cessazione della produzione.
L’azienda viene messa in liquidazione e gli stabili di via Generale Paolucci vengono acquisiti dal gruppo Stilma, guidato dall’imprenditore reggiano Erminio Spallanzani, operante nel settore dei trafilati metallici.
Nel 2007 l’area è convertita in zona commerciale e terziaria, aggregando piccoli edifici intorno a una corte, su ispirazione del progetto originario.
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DOCUMENTI
FONTI
IS Modena, Archivio CGIL, fondo FIOM
BIBLIOGRAFIA
Lorenzo Bertucelli, Claudia Finetti, Marco Minardi, Amedeo Osti Guerrazzi, Un secolo di Sindacato. La Camera del lavoro a Modena nel Novecento, Roma, Ediesse, 2001
Un altro pezzo di Maserati: la “Maserati candele e accumulatori”. Pietro Piombini racconta, in Anna Maria Pedretti (a cura di), Acciaierie e Maserati: due fabbriche modenesi. Dal dopoguerra ad oggi, Bologna, Editrice socialmente, 2013
Eliseo Ferrari, Maserati story. Il rilancio di un mito, Modena, Edizioni Il Fiorino, 2001; Eliseo Ferrari, Maserati story. Il rilancio di un mito, Modena, Edizioni Il Fiorino, 2001
Camera del lavoro di Rovereto sulla Secchia
All’inizio del Novecento anche a Rovereto è lanciata l’idea di costruire una Casa del popolo, grazie all’impegno volontario di lavoratori e delle loro leghe sindacali. Lo spazio interno era quasi interamente occupato da una sala con un palco, mentre ai lati dell’entrata erano presenti due piccoli uffici.
Nei primi anni è usata principalmente dal Partito socialista, il quale oltre a organizzare incontri e riunioni promuove serate danzanti, feste ed eventi sportivi, trasformando questo luogo in un punto di riferimento per i lavoratori.
Nel 1910 la proprietà passa dal Partito socialista alle organizzazioni sindacali locali e diventa il perno organizzativo per i conflitti sociali che attraversano il paese, in particolare durante lo sciopero dei mezzadri e boari del 1912. Il 13 novembre 1914 nasce la Società anonima cooperativa ‘Casa del popolo’ per la gestione di questo spazio, in un contesto che vede il consolidamento di leghe a indirizzo sindacalista rivoluzionario e anarchico. La sede non subisce danni durante il periodo dello squadrismo e del regime fascista, continuando a essere usata dai sindacati fascisti.
Nel dopoguerra questi spazi cominciano a risultare troppo limitati per le attività delle nuove organizzazioni politiche e sindacali. Inoltre, il Partito comunista intende avere una propria Casa del popolo, che viene realizzata sempre grazie al lavoro volontario nel 1948. In questo nuovo edificio trova sede anche la Camera del lavoro, che con il passare degli anni ne diventa il soggetto prevalente e poi unico.
Dopo il terremoto del 2012 la sede sindacale risulta inagibile, per cui si rende necessaria la ricerca di un nuovo spazio, che viene trovato in via Giovanni XXIII, 10/A, in pieno centro storico. L’inaugurazione ufficiale è l’11 gennaio 2014. Successivamente, la Camera del lavoro torna nei precedenti locali di via Chiesa sud 94, dove si trova tuttora.
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DOCUMENTI
FONTI
Statuto della società anonima cooperativa “Casa del popolo” in Rovereto, Archivio Istituto storico di Modena, Fondo Ennio Resca, b. 133
BIBLIOGRAFIA
Fondazione Modena 2007, Le Case del popolo della provincia di Modena, testi di Lorenzo Bertucelli e Chiara Lusuardi, Carpi, Edizioni APM, 2012
Davide Ferretti, Idilio Santini, Novi e il suo territorio. Economia, società e politica dall’Unità all’avvento del fascismo, Comune di Novi di Modena, 1995
Officine Alfieri Maserati
Nel 1937 la famiglia Orsi, già un colosso imprenditoriale e proprietaria delle Acciaierie Ferriere, acquista l’azienda automobilistica bolognese dei fratelli Maserati. Nel ‘39 l’attività viene spostata a Modena; nel nuovo stabilimento in viale Ciro Menotti si costituisce l’Alfieri Maserati per la produzione di automobili, e in quello di via Generale Paolucci la Candele Maserati accumulatori dove si realizzano candele di accensione e, successivamente, accumulatori.
Il 28 luglio 1943, pochi giorni dopo la caduta del fascismo e sparsasi la voce che dava per certa la fine del conflitto, i lavoratori della Alfieri Maserati scendono in sciopero insieme a quelli di diversi altri stabilimenti di Modena. Nel marzo ’44 hanno luogo altri scioperi all’interno della fabbrica, allora guidata dai tedeschi. Gli operai si battono per salvare il lavoro, le attrezzature e i macchinari, che riescono astutamente a nascondere.
Se nei primi anni del dopoguerra Orsi, avendo perduto la protezione politica grazie alla quale aveva prosperato, è tenuto a dimostrare di sapersi adeguare alla nuova realtà per salvaguardare i suoi profitti, di qui a breve le cose cambiano. Nel gennaio del 1949, adducendo una presunta crisi aziendale, ordina una riduzione considerevole delle maestranze. Ai falliti tentativi di conciliazione da parte della commissione interna e del sindacato segue ai primi di febbraio la serrata. La fabbrica rimane chiusa per tre mesi, e alla riapertura i sindacati sono costretti a registrare una pesante sconfitta creando un pericoloso precedente. Vengono licenziati i membri della commissione interna e i lavoratori attivi nel sindacato; da questo momento le violazioni dei contratti e le limitazioni delle libertà sono all’ordine del giorno.
Tra il 1963 e il ‘68 la Maserati entra in crisi; la spirale di debiti già gravanti sull’azienda si accentua e la Citroen acquista il 60% delle azioni. In questa fase sono numerose le assunzioni, l’azienda arriva a quasi un migliaio di dipendenti.
Ma quando nel 1975 la Peugeot muove i primi passi verso l’acquisizione della Citroen, i nuovi programmi di ristrutturazione non comprendono più la Maserati. Alla manifesta ed irrevocabile intenzione di chiudere la fabbrica, che contava in quel momento quasi 800 occupati, le maestranze prendono in mano la situazione in difesa del posto di lavoro organizzando un presidio permanente davanti la fabbrica. Dopo circa tre mesi viene siglato a Roma l’accordo che trasferiva la proprietà alla società pubblica Gepi, mentre per il ruolo di amministratore delegato viene individuato l’industriale Alejandro De Tomaso, nonostante l’opinione contraria del sindacato; l’accordo prevede un programma che occupa 600 lavoratori, mentre gli altri 120 saranno per la maggior parte ricollocati e i restanti mandati in cassa integrazione.
La gestione di De Tomaso presenta fin da subito numerosi problemi, per cui la dirigenza incolpa sistematicamente i lavoratori. Nel frattempo l’azienda continua ad accumulare perdite; agli inizi degli anni Ottanta diventa sempre più chiaro, anche alle istituzioni, che la Maserati è sull’orlo del fallimento.
Dopo una complicata trattativa, nel dicembre dell’89 De Tomaso cede alle pressioni del governo consentendo alla Fiat di entrare con il 50% del capitale e, successivamente, di prendere in mano la gestione aziendale. Alla fine degli anni Novanta, l’area è oggetto di un importante intervento di riconfigurazione in relazione al nuovo assetto societario, con la realizzazione di una torre e di una palazzina per uffici con showroom su via Divisione Acqui e viale Ciro Menotti.
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FONTI
La Guida. Giornale delle maestranze dell’Officina Alfieri Maserati, 1951; 1956
Atti del Convegno delle Commissioni interne. Inchieste sulle condizioni di vita e di lavoro nelle fabbriche modenesi, Modena, 15 giugno 1955
BIBLIOGRAFIA
Anna Maria Pedretti (a cura di), Il lavoro raccontato. Acciaierie e Maserati: due fabbriche modenesi dal dopoguerra a oggi, Bologna, Editrice Socialmente, 2013
Eliseo Ferrari, Maserati story. Il rilancio di un mito, Modena, Edizioni Il Fiorino, 2001
Claudia Finetti, Il sindacato nello sviluppo del ‘modello emiliano’ (1963-1978) in Lorenzo Bertucelli, Claudia Finetti, Marco Minardi, Amedeo Osti Guerrazzi, Un secolo di Sindacato. La Camera del lavoro a Modena nel Novecento, Roma, Ediesse, 2001, pp. 397-405
Acciaierie e Ferriere
Le Acciaierie Ferriere e Fonderie di Modena si costituiscono per iniziativa di Adolfo Orsi, che rileva nel 1924 l’officina-fonderia A. Roatti e C. per l’attività di fusione di rottami di ferro e la produzione di laminati, profilati e ghisa.
Durante il fascismo l’azienda si sviluppa anche grazie alle commesse belliche e stringendo rapporti di fiducia con alcuni gerarchi fascisti che concedono alle Acciaierie Ferriere di Modena la prelazione per l’utilizzo dei rottami di ferro raccolti in regione. Già in quel periodo le pessime condizioni di lavoro spingono gli operai a scrivere nel 1935 un documento di denuncia della situazione.
Nel dopoguerra le Acciaierie, che avevano subito danni rilevanti in seguito ai bombardamenti del 1944, vengono rapidamente riedificate, e la produzione è riconvertita nella fabbricazione di carpenteria metallica per il settore dell’edilizia. Questo è un periodo di grande tensione nelle fabbriche modenesi. L’espressione più significativa di questo clima è rappresentata dai tragici fatti delle Fonderie Riunite, sempre di proprietà del gruppo Orsi, dove sei operai in sciopero perdono la vita sotto il fuoco della Polizia.
Nel 1962 iniziano le lotte dei metalmeccanici per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro, che introduce diverse importanti novità; e nel ‘63 alle Acciaierie, che godevano di un momento di relativa armonia tra le diverse sigle sindacali, si riesce ad ottenere anche un accordo aziendale che prevedeva un aumento salariale, la riduzione dell’orario di lavoro e un aumento delle paghe di posto. Soltanto un anno dopo l’azienda, che allora contava 520 dipendenti, si trova sull’orlo del fallimento. La crisi è determinata dall’incapacità amministrativa , che porta alla decisione della banche e delle altre aziende siderurgiche di non fare più credito ad Orsi, il quale nel frattempo aveva accumulato centinaia di milioni di debiti. Si apre quindi una fase di grande impegno da parte dei sindacati, dell’amministrazione locale e di quella provinciale, dei partiti modenesi, di parlamentari e, in una fase successiva, della Camera di Commercio, per tentare di salvare l’azienda; la soluzione più favorevole sembra essere quella di assegnarla ad una gestione pubblica.
Dopo numerose trattative nel 1965 l’Imi (Istituto mobiliare italiano) rileva il 93% del capitale azionario, e predispone un ambizioso programma di investimenti. I problemi però non si risolvono del tutto come si era sperato, e poco dopo la proprietà viene trasferita alla Cogne, azienda siderurgica nata come privata e poi trasformata in pubblica sotto l’Egam, che si proponeva di realizzare importanti interventi tecnici volti ad aumentare la produzione; progetti che incontrano fin da subito degli intoppi.
Nel 1972 dopo l’ennesimo grave incidente sul lavoro i sindacati proclamano lo sciopero. Viene steso un documento di denuncia dove si segnala che soltanto nel corso dell’anno precedente si erano verificati 300 infortuni all’interno della fabbrica, e che dal ‘53 i morti sul lavoro erano 10, a cui solo due anni dopo se ne aggiungerà un altro.
Nel 1975 inizia una grave crisi del settore della siderurgia a causa di una sempre minore richiesta di acciaio. Lo scarseggiare di investimenti costringe a cedere l’azienda ad un privato; la proprietà passa quindi all’imprenditore reggiano Erminio Spallanzani. La sua gestione sembra avviarsi positivamente, ma ormai il quadro economico stava mutando; all’inizio degli anni Ottanta vengono introdotte normative volte a ridurre ulteriormente la produzione di acciaio. Spallanzani decide quindi di andare verso la chiusura, che grazie all’impegno congiunto da parte dei soggetti coinvolti e all’utilizzo di tutti gli ammortizzatori sociali disponibili non provocherà eccessivi problemi.
Nel 2001 i corpi di fabbrica sono demoliti per lasciare spazio a un complesso (Centro Ferriere) costituito da due torri e una piazza pubblica, con funzione commerciale, residenziale e terziaria nella quale il 31 ottobre 2018 viene inaugurata una lapide ai caduti.
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FONTI
Il lingotto modenese. Giornale delle maestranze delle Acciaierie Ferriere di Modena, 1951-52; 1956
BIBLIOGRAFIA
Anna Maria Pedretti (a cura di), Il lavoro raccontato. Acciaierie e Maserati: due fabbriche modenesi dal dopoguerra a oggi, Bologna, Editrice Socialmente, 2013
Manifattura tabacchi
Le prime notizie di cui disponiamo sulla presenza a Modena di un’attività legata alla lavorazione del tabacco risalgono al Seicento, appaltata dal Duca il quale ne traeva un notevole compenso annuo. Nel 1788 la “fabbrica del tabacco” passa in via Ganaceto nel soppresso monastero dei Cappuccini, prendendo il nome di “Ferma ducale per l’Appalto dei tabacchi, acquavite e rosoli”. Quando nel 1850 l’appalto passa dal Duca allo Stato, la fabbrica viene spostata nell’area dell’ex Convento di San Marco, in seguito ai lavori per adattare il complesso alle nuove esigenze produttive.
Nel 1902 la sede è sottoposta ad importanti lavori di ampliamento per permettere l’ingresso di nuove maestranze. Ma le numerose assunzioni che la ditta vanta orgogliosa sono in prevalenza di bambine, costrette ad ore e ore di lavoro sottopagato; per questo motivo alla cerimonia di inaugurazione le operaie decidono di non presentarsi in segno di protesta. Questo episodio accade in un momento di già forte tensione all’interno della Manifattura. L’agitazione ha infatti origine l’anno precedente, motivata dal minore salario corrisposto alle lavoratrici modenesi rispetto a quelle delle altre città; a questa lotta, guidata dalla locale Camera del lavoro a cui si affianca Gregorio Agnini, l’amministrazione risponde con una serrata. Solo nel settembre del 1904 con Regio Decreto viene approvato il “Regolamento del personale a mercede giornaliera nelle Manifatture dei tabacchi”, che oltre ad uniformare su base statale retribuzioni ed orari, impone il limite minimo di età per le assunzioni a 15 anni.
Tra il 1918 e il ’21 i proventi dell’azienda aumentano notevolmente, mentre i salari rimasti immutati sono ormai irrisori rispetto all’accresciuto costo della vita nella drammatica situazione post-bellica. Nel corso del 1919 le operaie della Manifattura prendono parte ai primi moti contro il caro viveri; il 31 marzo dell’anno successivo la Federazione dei lavoratori dello Stato proclama lo sciopero generale, che si concluderà il 4 maggio con una sconfitta.
Nel frattempo l’avvento del fascismo vede gran parte delle operaie in posizione risolutamente ostile, facendole diventare un bersaglio privilegiato. La stampa fascista scatena una vera e propria campagna d’odio nei loro confronti, e le squadre fasciste cominciano a presidiare la fabbrica. Operaie e operai sono presi di mira dagli squadristi modenesi, che davanti allo stabilimento ispezionano le loro ceste, requisendo i giornali non allineati con il fascismo, e compiendo sistematiche provocazioni e aggressioni fisiche ai loro danni. All’interno della fabbrica, già a partire dal 1921 le operaie più politicizzate, apertamente comuniste e socialiste, vengono brutalmente cacciate o mandate in pre-pensionamento. La costante sorveglianza e la paura del licenziamento rendono sempre più difficoltosa l’organizzazione di una rete antifascista operante all’interno del luogo di lavoro, che viene quindi coltivata con estrema prudenza e perlopiù fuori la fabbrica; nonostante ciò, le operaie rimangono per tutto il ventennio oggetto dell’attenzione dei fascisti e della polizia, e si rendono protagoniste di atti di disobbedienza come la diffusione di volantini comunisti nel novembre del 1930 e di scritte contro il regime nei bagni della fabbrica nel ‘39.
Gli scioperi del marzo 1943 coinvolgono anche Modena, come il resto della regione, dando un clamoroso segnale di distacco tra il paese e il regime. Dopo la caduta del fascismo nel luglio, sono promosse altre agitazioni nelle fabbriche al fine di allontanare gli ex squadristi e fiduciari; alla Manifattura, allora il più grande stabilimento industriale con oltre 1500 dipendenti, ha inizio il 17 agosto.
Nel secondo dopoguerra a dare rilievo alle problematiche della fabbrica è il giornale delle maestranze, “Tribuna aperta”, che inizia la sua attività a partire dal novembre del 1951. In particolare, costante è l’impegno dei giornalisti operai nel sollecitare la Dirigenza sull’inadeguatezza e insalubrità dell’ambiente di lavoro. Dopo decenni di lotta, alla fine degli anni Settanta i lavoratori riescono ad ottenere l’intervento del Servizio di Medicina del Lavoro.
La fabbrica diventa il simbolo delle lotte per i diritti sul lavoro delle modenesi. Dismessa nel 2002, è dichiarata di interesse culturale nel 2007 e sottoposta a interventi di riqualificazione. La piazzetta adiacente, dove svetta la ciminiera, è stata dedicata proprio alle Paltadòri (dal dialetto modenese, così erano definite le operaie della Manifattura, poiché lavoravano nell’Appalto del tabacco). Dal 2019 la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e Cassa Depositi e Prestiti (CDP), ora proprietaria dell’immobile, ha dato avvio insieme al Comune di Modena ad un nuovo intervento edilizio trasformando l’area in un complesso residenziale.
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DOCUMENTI
FONTI
Tribuna aperta. Giornale delle maestranze della Manifattura tabacchi, 1951-1956
BIBLIOGRAFIA
Fabio Montella, Bagliori d’incendio. Conflitti politici a Modena e provincia tra Guerra di Libia e Marcia su Roma, Milano, Mimesis, 2021
Istituto Storico di Modena, Dizionario storico dell’antifascismo modenese, Vol. 1, Temi a cura di Amedeo Osti Guerrazzi, Giovanni Taurasi, Paolo Trionfini, Milano, Unicopli, 2012
Amedeo Osti Guerrazzi, Claudio Silingardi, Storia del sindacato a Modena 1880-1980, Roma, Ediesse, 2002
Paola Nava, La fabbrica dell’emancipazione. Operaie della Manifattura Tabacchi di Modena: storie di vita e di lavoro, Roma, Coop. Utopia, 1986
U.S.L. di Modena, Indagine sui fattori di nocività presso la Manifattura tabacchi di Modena, Carpi, Coop grafica
Fiat-Oci
L’Officina costruzioni industriali (Oci) Fiat nasce nel 1928, quando la Fiat decide di dislocare a Modena la produzione di trattrici agricole.
La nuova fabbrica va ad occupare lo stabilimento che dal 1908 era sede del Cotonificio modenese. Nel 1915, con l’avvento della Grande guerra, il cotonificio è convertito in proiettificio dalla Società altiforni fonderie acciaierie Piombino, poi assorbito nel 1918 dalle Officine meccaniche reggiane (Officine meccaniche italiane-Omi).
Dieci anni dopo, quando la produzione entra in crisi, qui si stabilisce la Fiat-Oci. Figura di spicco in questo passaggio è quella di Guido Corni, Segretario provinciale del Partito nazionale fascista e figlio dell’industriale Fermo, che svolge un decisivo ruolo di intermediazione nell’accordo stipulato tra la Fiat Torino e le Officine Meccaniche Reggiane. Obiettivo dell’azienda è quello di aumentare la produzione al centro di un’area che considera un importante mercato.
Nei primi anni Cinquanta la Fiat-Oci diventa effettivamente il più grande stabilimento metallurgico della provincia di Modena; occupa oltre 1000 dipendenti tra operai e impiegati. Questo è un momento molto pesante per la classe lavoratrice, e a Modena il fenomeno dei licenziamenti per rappresaglia politico-sindacale è particolarmente gravoso. I lavoratori militanti nei partiti della sinistra e nel sindacato sono sottoposti a continue minacce e soprusi da parte del padronato, e sono vittima di licenziamenti discriminatori.
Nel marzo 1953 si tengono le elezioni per il rinnovo della Commissione interna; la Direzione oltre a cercare di intralciare il loro democratico svolgimento, invita i capi squadra e i capi reparto a far pressione sui lavoratori perché votino contro la FIOM. Nonostante ciò la CGIL rimane il primo sindacato, ottenendo il 76 per cento dei voti rispetto al 90 per cento dell’anno precedente. La ritorsione padronale non tarda ad arrivare, dopo un primo ordine di licenziamenti da parte dell’azienda e la conseguente occupazione, a farne le spese saranno i membri della Commissione interna e lavoratori iscritti alla FIOM e ai partiti della sinistra. Molti di questi lavoratori negli anni successivi si troveranno a gestire piccole imprese artigiane cui la Fiat dava in appalto alcune lavorazioni.
Gli anni Sessanta vedono la Fiat-Oci in piena espansione, la manodopera scarseggia e l’azienda impone lo straordinario per tenere il passo della produzione. Dopo la sottoscrizione del cosiddetto “accordone di Torino” il 26 giugno del 1969, a Modena l’azienda si rifiuta di applicare i nuovi patti alla realtà locale. Qui ha inizio una lunga vertenza che troverà conclusione la primavera dell’anno successivo, assumendo un valore simbolico per l’intero movimento operaio modenese.
Un’altra importante vertenza è quella aperta nel 1977 dalle donne per rivendicare migliori condizioni di lavoro e maggiore controllo sanitario, nonché una riorganizzazione dei reparti che preveda nuove assunzioni tra cui l’inserimento di manodopera femminile nel ciclo produttivo dell’azienda.
Oggi la struttura non è più quella originale, ma il frutto di successivi ampliamenti. Attualmente l’impianto ospita la sede modenese della New Holland Agriculture.
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FONTI
Atti del Convegno delle Commissioni interne. Inchieste sulle condizioni di vita e di lavoro nelle fabbriche modenesi, Modena, 15 giugno 1955
Il Trattore. Giornale delle maestranze della Fiat-Oci di Modena, 1951-1957
BIBLIOGRAFIA
Lorenzo Bertucelli, “Costruire la democrazia”. La Camera del lavoro di Modena (1945-1962) in Lorenzo Bertucelli, Claudia Finetti, Marco Minardi, Amedeo Osti Guerrazzi, Un secolo di Sindacato. La Camera del lavoro a Modena nel Novecento, Roma, Ediesse, 2001
Alberto Molinari, Il tempo del cambiamento. Movimento sociali e culture politiche a Modena negli anni Sessanta, Bologna, Editrice Socialmente, 2014
Eloisa Betti, Elisa Giovannetti, Senza giusta causa. Le donne licenziate per rappresaglia politico-sindacale a Bologna negli anni ’50, Bologna, Editrice Socialmente, 2014
Centrale idroelettrica di Farneta
L’idea di costruire un impianto idroelettrico all’avanguardia, in un luogo dove anticamente sorgeva un semplice mulino ad acqua, trova realizzazione quando il Consorzio Emiliano di Bonifica Parmigiana-Moglia decide di acquistarne i terreni.
L’intento è quello di fornire energia agli impianti di idrovore dei Consorzi di Bonifica delle province di Reggio, Modena, Bologna, Ferrara e Mantova, sfruttando le acque dei bacini imbriferi dei torrenti Dolo e Dragone, affluenti del fiume Secchia.
Il cantiere è aperto nel 1924, e occupa 800 operai. L’anno successivo l’inizio dei lavori si verifica uno dei rari momenti di tensione sociale avvenuti nella zona durante il regime fascista: in gennaio è organizzato uno sciopero da 500 lavoratori impegnati nella realizzazione dell’impianto idroelettrico di Farneta, ai quali si uniscono quelli al lavoro per la costruzione della diga di Fontanaluccia. Una nuova protesta è messa in atto il 18 luglio 1926 da alcuni operai addetti all’impianto idroelettrico del Dragone a Frassinoro, per ottenere un aumento di salario; cinque gli arrestati.
I lavori si concludono nel 1928 e la Centrale viene intitolata a Romeo Melli, direttore generale della società Emiliana Esercizi Elettrici. Dal 1990 la centrale è completamente automatizzata e l’intera struttura industriale è stata restaurata conservando la forma degli anni venti. Di recente è stato recuperato a scopo didattico uno dei quattro gruppi turbina alternatore, con la sala quadri di comando e controllo della vecchia centrale e varie attrezzature occorrenti alla manutenzione del macchinario, ora conservate in un’area della centrale adibita a museo.
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Bosco della Saliceta
Il bosco, situato tra Camposanto e San Felice con un’estensione di oltre 500 ettari, è utilizzato come riserva di caccia già dal Ducato D’Este e ai primi del Novecento acquistato dal conte di Carrobbio. Durante la seconda guerra mondiale il bosco è adibito a sede nazista e polveriera, in seguito i partigiani se ne impossessano e diviene luogo per i rifornimenti.
Nel dopoguerra i braccianti disoccupati della zona si battono, con scioperi e invasioni, per disboscare e rendere coltivabili le terre, fino ad ottenere il disboscamento completo nel 1951.
A partire dagli anni 1980, grazie all’iniziativa privata e ai finanziamenti della politica agricola comune (PAC) e del fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) dell’Unione europea, si cerca di ricostruire il grande patrimonio naturale perduto. Negli anni 2010 sono stati riforestati 32 ettari a “macchie di leopardo”. Nel 2011 la Provincia di Modena ha istituito un’area di riequilibrio ecologico di tre ettari, parte della Rete Natura 2000; l’area riforestata comprende specie arboree di quercia, salice, acero, frassino e olmo, oltre a siepi di prugnolo selvatico, rosa canina e sanguinella. Nel luglio dello stesso anno è stato inaugurato un percorso storico-naturalistico all’interno dell’isola ecologica del “nuovo” bosco della Saliceta, situato in via Madonna del Bosco nel comune di Camposanto.
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DOCUMENTI
BIBLIOGRAFIA
Amedeo Osti Guerrazzi, Claudio Silingardi, Storia del sindacato a Modena 1880-1980, Roma, Ediesse, 2002
Fiom Modena - sede di via Mar Ionio 23
A partire dal 4° congresso Cgil del 1956 il tema del decentramento organizzativo entra nel dibattito del sindacato, per l’esigenza di garantire “un contatto più articolato, più diretto e più vivo con i lavoratori”. Da questo momento sono avviate in città esperienze come la costituzione delle Camere del lavoro rionali (ne nascono cinque, alla Sacca, la Crocetta, San Lazzaro, San Faustino e alla Madonnina), poi sono organizzate presenze sul territorio da parte delle diverse categorie. La stessa Fiom struttura presenze fisse nei quartieri operai, ad esempio in via Paltrinieri dove ora si trova la Polisportiva Sacca.
Per il sindacato dei metalmeccanici la condizione per realizzare una propria sede specifica, distinta da quella della Camera del lavoro, si determina con l’avvio del processo unitario agli inizi degli anni Settanta. La nascita del ‘sindacato dei consigli’, cioè l’affermazione del nuovo modello di rappresentanza operaia dei Consigli di fabbrica, che sostituiscono le vecchie e superate Commissioni interne, e il balzo in avanti delle lotte della fine degli anni Sessanta fino all’introduzione dello Statuto dei lavoratori, aprono un dibattito all’interno del sindacato sulla possibilità di giungere all’unità organica tra le tre confederazioni.
L’esito, più limitato, è la nascita nel 1973 della Federazione Cgil-cisl-Uil. Più avanzata, al punto da configurarsi come sorta di ‘quarto sindacato’, è l’esperienza della Federazione lavoratori metalmeccanici, promossa dai sindacati metalmeccanici Fiom, Fim e Uilm, al punto che si consente la possibilità per il lavoratore di poter risultare iscritto al solo sindacato unitario, senza indicare al momento dell’iscrizione una sigla di appartenenza.
In questo contesto si pone la necessità di dare una identità specifica al sindacato unitario dei metalmeccanici, con l’individuazione di una propria sede. Questa viene individuata in una palazzina in via Mar Ionio 23, proprio alle spalle delle Fonderie riunite, nel quartiere Crocetta, che è acquistata dal sindacato nel 1976.
L’esperienza unitaria si esaurisce nella seconda metà degli anni Ottanta, finisce l’esperienza della Federazione Cgil-Cisl-Uil e della Flm, e via Mar Ionio rimane come sede della sola federazione dei metalmeccanici Cgil. Attualmente oltre alla Fiom è presente anche la sede provinciale della Federconsumatori, costituita a Modena nel 1992.
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Voci correlate
S.A.I.M.E.
Le radici storiche della S.A.I.M.E. (Società Anonima Industriale Materiali Edili) risalgono al 1788, quando Pietro Lei apre una fornace di terraglia rossa in via Lea a Sassuolo per la produzione di stoviglieria e vasellame. Nel 1911, l’allora proprietario Francesco Rubbiani cede la fabbrica alla Società Dieci, Bertoli & C. che decide di convertire la produzione verso piastrelle e insegne stradali.
La proprietà viene acquisita nel 1926 dall’ingegnere modenese Guido Siliprandi, già tecnico della Società Ceramica di Sassuolo (Marca Corona). Nel 1932 chiude lo stabilimento in via Lea per aprirne uno più moderno a lato di via Radici in Piano; la nuova fabbrica, pensata per dare lavoro a 350 operai, una volta completata ne occupa oltre 500.
Nel 1938 nasce il marchio S.A.I.M.E., quando l’avvocato modenese Arrigo Gambigliani Zoccoli diventa socio e l’azienda viene rinominata Società Anonima Industrie Materiali Edili. A guerra finita è tra le aziende sassolesi quella che aveva subito i danni maggiori; ma con l’accesso ai fondi provenienti dal piano Marshall si rende possibile una veloce ricostruzione che le permetterà di diventare in breve tempo un’avanguardia del settore.
Gli anni ‘50 vedono l’espansione dell’edilizia, e i fratelli Gambigliani Zoccoli decidono di investire in questo settore. Allora nella fabbrica erano impiegati circa 600 operai; in questo periodo, tra il ‘56-’57, ha luogo una serrata, alla riapertura quasi tutta la Commissione interna era licenziata.
Nel 1987 l’azienda viene rilevata dal Gruppo Ceramico Ri.Wal. e l’attività sospesa per diverso tempo per consentire un’opera di totale ristrutturazione e rinnovamento terminata nel 1996. Nel 2007, in seguito a cambi societari, il Gruppo Ri.Wal. ha trasformato la ragione sociale in Nuova Ri.Wal. Ceramiche S.r.l. entrando a far parte di Casalgrande Padana S.p.a..