Acciaierie Ferriere
Le Acciaierie Ferriere e Fonderie di Modena si costituiscono per iniziativa di Adolfo Orsi, che rileva nel 1924 l’officina-fonderia A. Roatti e C. per l’attività di fusione di rottami di ferro e la produzione di laminati, profilati e ghisa.
Durante il fascismo l’azienda si sviluppa anche grazie alle commesse belliche e stringendo rapporti di fiducia con alcuni gerarchi fascisti che concedono alle Acciaierie Ferriere di Modena la prelazione per l’utilizzo dei rottami di ferro raccolti in regione. Già in quel periodo le pessime condizioni di lavoro spingono gli operai a scrivere nel 1935 un documento di denuncia della situazione.
Nel dopoguerra le Acciaierie, che avevano subito danni rilevanti in seguito ai bombardamenti del 1944, vengono rapidamente riedificate, e la produzione è riconvertita nella fabbricazione di carpenteria metallica per il settore dell’edilizia. Questo è un periodo di grande tensione nelle fabbriche modenesi. L’espressione più significativa di questo clima è rappresentata dai tragici fatti delle Fonderie Riunite, sempre di proprietà del gruppo Orsi, dove sei operai in sciopero perdono la vita sotto il fuoco della Polizia.
Nel 1962 iniziano le lotte dei metalmeccanici per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro, che introduce diverse importanti novità; e nel ‘63 alle Acciaierie, che godevano di un momento di relativa armonia tra le diverse sigle sindacali, si riesce ad ottenere anche un accordo aziendale che prevedeva un aumento salariale, la riduzione dell’orario di lavoro e un aumento delle paghe di posto. Soltanto un anno dopo l’azienda, che allora contava 520 dipendenti, si trova sull’orlo del fallimento. La crisi è determinata dall’incapacità amministrativa , che porta alla decisione della banche e delle altre aziende siderurgiche di non fare più credito ad Orsi, il quale nel frattempo aveva accumulato centinaia di milioni di debiti. Si apre quindi una fase di grande impegno da parte dei sindacati, dell’amministrazione locale e di quella provinciale, dei partiti modenesi, di parlamentari e, in una fase successiva, della Camera di Commercio, per tentare di salvare l’azienda; la soluzione più favorevole sembra essere quella di assegnarla ad una gestione pubblica.
Dopo numerose trattative l’Imi (Istituto mobiliare italiano) rileva il 93% del capitale azionario, e predispone un ambizioso programma di investimenti. I problemi però non si risolvono del tutto come si era sperato, e poco dopo la proprietà viene trasferita alla Cogne, azienda siderurgica nata come privata e poi trasformata in pubblica sotto l’Egam, che si proponeva di realizzare importanti interventi tecnici volti ad aumentare la produzione; progetti che incontrano fin da subito degli intoppi.
Nel 1972 dopo l’ennesimo grave incidente sul lavoro i sindacati proclamano lo sciopero. Viene steso un documento di denuncia dove si segnala che soltanto nel corso dell’anno precedente si erano verificati 300 infortuni all’interno della fabbrica, e che dal ‘53 i morti sul lavoro erano 10, a cui solo due anni dopo se ne aggiungerà un altro.
Nel 1975 inizia una grave crisi del settore della siderurgia a causa di una sempre minore richiesta di acciaio. Lo scarseggiare di investimenti costringe a cedere l’azienda ad un privato; la proprietà passa quindi a Erminio Spallanzani. La sua gestione sembra avviarsi positivamente, ma ormai il quadro economico stava mutando; all’inizio degli anni Ottanta vengono introdotte normative volte a ridurre ulteriormente la produzione di acciaio. Spallanzani decide quindi di andare verso la chiusura, che grazie all’impegno congiunto da parte dei soggetti coinvolti e all’utilizzo di tutti gli ammortizzatori sociali disponibili non provocherà eccessivi problemi.
Nel 2001 i corpi di fabbrica sono demoliti per lasciare spazio a un complesso (Centro Ferriere) costituito da due torri e una piazza pubblica, con funzione commerciale, residenziale e terziaria nella quale il 31 ottobre 2018 viene inaugurata una lapide ai caduti sul lavoro.
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FONTI
Il lingotto modenese. Giornale delle maestranze delle Acciaierie Ferriere di Modena, 1951-52; 1956
BIBLIOGRAFIA
Anna Maria Pedretti (a cura di), Il lavoro raccontato. Acciaierie e Maserati: due fabbriche modenesi dal dopoguerra a oggi, Bologna, Editrice Socialmente, 2013
Manifattura tabacchi
Le prime notizie di cui disponiamo sulla presenza a Modena di un’attività legata alla lavorazione del tabacco risalgono al Seicento, appaltata dal Duca il quale ne traeva un notevole compenso annuo. Nel 1788 la “fabbrica del tabacco” passa in via Ganaceto nel soppresso monastero dei Cappuccini, prendendo il nome di “Ferma ducale per l’Appalto dei tabacchi, acquavite e rosoli”. Quando nel 1850 l’appalto passa dal Duca allo Stato, la fabbrica viene spostata nell’area dell’ex Convento di San Marco, in seguito ai lavori per adattare il complesso alle nuove esigenze produttive.
Nel 1902 la sede è sottoposta ad importanti lavori di ampliamento per permettere l’ingresso di nuove maestranze. Ma le numerose assunzioni che la ditta vanta orgogliosa sono in prevalenza di bambine, costrette ad ore e ore di lavoro sottopagato; per questo motivo alla cerimonia di inaugurazione le operaie decidono di non presentarsi in segno di protesta. Questo episodio accade in un momento di già forte tensione all’interno della Manifattura. L’agitazione ha infatti origine l’anno precedente, motivata dal minore salario corrisposto alle lavoratrici modenesi rispetto a quelle delle altre città; a questa lotta, guidata dalla locale Camera del lavoro a cui si affianca Gregorio Agnini, l’amministrazione risponde con una serrata. Solo nel settembre del 1904 con Regio Decreto viene approvato il “Regolamento del personale a mercede giornaliera nelle Manifatture dei tabacchi”, che oltre ad uniformare su base statale retribuzioni ed orari, impone il limite minimo di età per le assunzioni a 15 anni.
Tra il 1918 e il ’21 i proventi dell’azienda aumentano notevolmente, mentre i salari rimasti immutati sono ormai irrisori rispetto all’accresciuto costo della vita nella drammatica situazione post-bellica. Nel corso del 1919 le operaie della Manifattura prendono parte ai primi moti contro il caro viveri; il 31 marzo dell’anno successivo la Federazione dei lavoratori dello Stato proclama lo sciopero generale, che si concluderà il 4 maggio con una sconfitta.
Nel frattempo l’avvento del fascismo vede gran parte delle operaie in posizione risolutamente ostile, facendole diventare un bersaglio privilegiato. La stampa fascista scatena una vera e propria campagna d’odio nei loro confronti, e le squadre fasciste cominciano a presidiare la fabbrica. Operaie e operai sono presi di mira dagli squadristi modenesi, che davanti allo stabilimento ispezionano le loro ceste, requisendo i giornali non allineati con il fascismo, e compiendo sistematiche provocazioni e aggressioni fisiche ai loro danni. All’interno della fabbrica, già a partire dal 1921 le operaie più politicizzate, apertamente comuniste e socialiste, vengono brutalmente cacciate o mandate in pre-pensionamento. La costante sorveglianza e la paura del licenziamento rendono sempre più difficoltosa l’organizzazione di una rete antifascista operante all’interno del luogo di lavoro, che viene quindi coltivata con estrema prudenza e perlopiù fuori la fabbrica; nonostante ciò, le operaie rimangono per tutto il ventennio oggetto dell’attenzione dei fascisti e della polizia, e si rendono protagoniste di atti di disobbedienza come la diffusione di volantini comunisti nel novembre del 1930 e di scritte contro il regime nei bagni della fabbrica nel ‘39.
Gli scioperi del marzo 1943 coinvolgono anche Modena, come il resto della regione, dando un clamoroso segnale di distacco tra il paese e il regime. Dopo la caduta del fascismo nel luglio, sono promosse altre agitazioni nelle fabbriche al fine di allontanare gli ex squadristi e fiduciari; alla Manifattura, allora il più grande stabilimento industriale con oltre 1500 dipendenti, ha inizio il 17 agosto.
Nel secondo dopoguerra a dare rilievo alle problematiche della fabbrica è il giornale delle maestranze, “Tribuna aperta”, che inizia la sua attività a partire dal novembre del 1951. In particolare, costante è l’impegno dei giornalisti operai nel sollecitare la Dirigenza sull’inadeguatezza e insalubrità dell’ambiente di lavoro. Dopo decenni di lotta, alla fine degli anni Settanta i lavoratori riescono ad ottenere l’intervento del Servizio di Medicina del Lavoro.
La fabbrica diventa il simbolo delle lotte per i diritti sul lavoro delle modenesi. Dismessa nel 2002, è dichiarata di interesse culturale nel 2007 e sottoposta a interventi di riqualificazione. La piazzetta adiacente, dove svetta la ciminiera, è stata dedicata proprio alle Paltadòri (dal dialetto modenese, così erano definite le operaie della Manifattura, poiché lavoravano nell’Appalto del tabacco). Dal 2019 la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e Cassa Depositi e Prestiti (CDP), ora proprietaria dell’immobile, ha dato avvio insieme al Comune di Modena ad un nuovo intervento edilizio trasformando l’area in un complesso residenziale.
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DOCUMENTI
FONTI
Tribuna aperta. Giornale delle maestranze della Manifattura tabacchi, 1951-1956
BIBLIOGRAFIA
Fabio Montella, Bagliori d’incendio. Conflitti politici a Modena e provincia tra Guerra di Libia e Marcia su Roma, Milano, Mimesis, 2021
Istituto Storico di Modena, Dizionario storico dell’antifascismo modenese, Vol. 1, Temi a cura di Amedeo Osti Guerrazzi, Giovanni Taurasi, Paolo Trionfini, Milano, Unicopli, 2012
Amedeo Osti Guerrazzi, Claudio Silingardi, Storia del sindacato a Modena 1880-1980, Roma, Ediesse, 2002
Paola Nava, La fabbrica dell’emancipazione. Operaie della Manifattura Tabacchi di Modena: storie di vita e di lavoro, Roma, Coop. Utopia, 1986
U.S.L. di Modena, Indagine sui fattori di nocività presso la Manifattura tabacchi di Modena, Carpi, Coop grafica
Fiat-Oci
L’Officina costruzioni industriali (Oci) Fiat nasce nel 1928, quando la Fiat decide di dislocare a Modena la produzione di trattrici agricole.
La nuova fabbrica va ad occupare lo stabilimento che dal 1908 era sede del Cotonificio modenese. Nel 1915, con l’avvento della Grande guerra, il cotonificio è convertito in proiettificio dalla Società altiforni fonderie acciaierie Piombino, poi assorbito nel 1918 dalle Officine meccaniche reggiane (Officine meccaniche italiane-Omi).
Dieci anni dopo, quando la produzione entra in crisi, qui si stabilisce la Fiat-Oci. Figura di spicco in questo passaggio è quella di Guido Corni, Segretario provinciale del Partito nazionale fascista e figlio dell’industriale Fermo, che svolge un decisivo ruolo di intermediazione nell’accordo stipulato tra la Fiat Torino e le Officine Meccaniche Reggiane. Obiettivo dell’azienda è quello di aumentare la produzione al centro di un’area che considera un importante mercato.
Nei primi anni Cinquanta la Fiat-Oci diventa effettivamente il più grande stabilimento metallurgico della provincia di Modena; occupa oltre 1000 dipendenti tra operai e impiegati. Questo è un momento molto pesante per la classe lavoratrice, e a Modena il fenomeno dei licenziamenti per rappresaglia politico-sindacale è particolarmente gravoso. I lavoratori militanti nei partiti della sinistra e nel sindacato sono sottoposti a continue minacce e soprusi da parte del padronato, e sono vittima di licenziamenti discriminatori.
Nel marzo 1953 si tengono le elezioni per il rinnovo della Commissione interna; la Direzione oltre a cercare di intralciare il loro democratico svolgimento, invita i capi squadra e i capi reparto a far pressione sui lavoratori perché votino contro la FIOM. Nonostante ciò la CGIL rimane il primo sindacato, ottenendo il 76 per cento dei voti rispetto al 90 per cento dell’anno precedente. La ritorsione padronale non tarda ad arrivare, dopo un primo ordine di licenziamenti da parte dell’azienda e la conseguente occupazione, a farne le spese saranno i membri della Commissione interna e lavoratori iscritti alla FIOM e ai partiti della sinistra. Molti di questi lavoratori negli anni successivi si troveranno a gestire piccole imprese artigiane cui la Fiat dava in appalto alcune lavorazioni.
Gli anni Sessanta vedono la Fiat-Oci in piena espansione, la manodopera scarseggia e l’azienda impone lo straordinario per tenere il passo della produzione. Dopo la sottoscrizione del cosiddetto “accordone di Torino” il 26 giugno del 1969, a Modena l’azienda si rifiuta di applicare i nuovi patti alla realtà locale. Qui ha inizio una lunga vertenza che troverà conclusione la primavera dell’anno successivo, assumendo un valore simbolico per l’intero movimento operaio modenese.
Un’altra importante vertenza è quella aperta nel 1977 dalle donne per rivendicare migliori condizioni di lavoro e maggiore controllo sanitario, nonché una riorganizzazione dei reparti che preveda nuove assunzioni tra cui l’inserimento di manodopera femminile nel ciclo produttivo dell’azienda.
Oggi la struttura non è più quella originale, ma il frutto di successivi ampliamenti. Attualmente l’impianto ospita la sede modenese della New Holland Agriculture.
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FONTI
Atti del Convegno delle Commissioni interne. Inchieste sulle condizioni di vita e di lavoro nelle fabbriche modenesi, Modena, 15 giugno 1955
Il Trattore. Giornale delle maestranze della Fiat-Oci di Modena, 1951-1957
BIBLIOGRAFIA
Lorenzo Bertucelli, “Costruire la democrazia”. La Camera del lavoro di Modena (1945-1962) in Lorenzo Bertucelli, Claudia Finetti, Marco Minardi, Amedeo Osti Guerrazzi, Un secolo di Sindacato. La Camera del lavoro a Modena nel Novecento, Roma, Ediesse, 2001
Alberto Molinari, Il tempo del cambiamento. Movimento sociali e culture politiche a Modena negli anni Sessanta, Bologna, Editrice Socialmente, 2014
Eloisa Betti, Elisa Giovannetti, Senza giusta causa. Le donne licenziate per rappresaglia politico-sindacale a Bologna negli anni ’50, Bologna, Editrice Socialmente, 2014
Centrale idroelettrica di Farneta
L’idea di costruire un impianto idroelettrico all’avanguardia, in un luogo dove anticamente sorgeva un semplice mulino ad acqua, trova realizzazione quando il Consorzio Emiliano di Bonifica Parmigiana-Moglia decide di acquistarne i terreni.
L’intento è quello di fornire energia agli impianti di idrovore dei Consorzi di Bonifica delle province di Reggio, Modena, Bologna, Ferrara e Mantova, sfruttando le acque dei bacini imbriferi dei torrenti Dolo e Dragone, affluenti del fiume Secchia.
Il cantiere è aperto nel 1924, e occupa 800 operai. L’anno successivo l’inizio dei lavori si verifica uno dei rari momenti di tensione sociale avvenuti nella zona durante il regime fascista: in gennaio è organizzato uno sciopero da 500 lavoratori impegnati nella realizzazione dell’impianto idroelettrico di Farneta, ai quali si uniscono quelli al lavoro per la costruzione della diga di Fontanaluccia. Una nuova protesta è messa in atto il 18 luglio 1926 da alcuni operai addetti all’impianto idroelettrico del Dragone a Frassinoro, per ottenere un aumento di salario; cinque gli arrestati.
I lavori si concludono nel 1928 e la Centrale viene intitolata a Romeo Melli, direttore generale della società Emiliana Esercizi Elettrici. Dal 1990 la centrale è completamente automatizzata e l’intera struttura industriale è stata restaurata conservando la forma degli anni venti. Di recente è stato recuperato a scopo didattico uno dei quattro gruppi turbina alternatore, con la sala quadri di comando e controllo della vecchia centrale e varie attrezzature occorrenti alla manutenzione del macchinario, ora conservate in un’area della centrale adibita a museo.
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LUOGHI
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BIOGRAFIE
Bosco della Saliceta
Il bosco, situato tra Camposanto e San Felice con un’estensione di oltre 500 ettari, è utilizzato come riserva di caccia già dal Ducato D’Este e ai primi del Novecento acquistato dal conte di Carrobbio. Durante la seconda guerra mondiale il bosco è adibito a sede nazista e polveriera, in seguito i partigiani se ne impossessano e diviene luogo per i rifornimenti.
Nel dopoguerra i braccianti disoccupati della zona si battono, con scioperi e invasioni, per disboscare e rendere coltivabili le terre, fino ad ottenere il disboscamento completo nel 1951.
A partire dagli anni 1980, grazie all’iniziativa privata e ai finanziamenti della politica agricola comune (PAC) e del fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) dell’Unione europea, si cerca di ricostruire il grande patrimonio naturale perduto. Negli anni 2010 sono stati riforestati 32 ettari a “macchie di leopardo”. Nel 2011 la Provincia di Modena ha istituito un’area di riequilibrio ecologico di tre ettari, parte della Rete Natura 2000; l’area riforestata comprende specie arboree di quercia, salice, acero, frassino e olmo, oltre a siepi di prugnolo selvatico, rosa canina e sanguinella. Nel luglio dello stesso anno è stato inaugurato un percorso storico-naturalistico all’interno dell’isola ecologica del “nuovo” bosco della Saliceta, situato in via Madonna del Bosco nel comune di Camposanto.
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DOCUMENTI
BIBLIOGRAFIA
Amedeo Osti Guerrazzi, Claudio Silingardi, Storia del sindacato a Modena 1880-1980, Roma, Ediesse, 2002
Fiom Modena - sede di via Mar Ionio 23
A partire dal 4° congresso Cgil del 1956 il tema del decentramento organizzativo entra nel dibattito del sindacato, per l’esigenza di garantire “un contatto più articolato, più diretto e più vivo con i lavoratori”. Da questo momento sono avviate in città esperienze come la costituzione delle Camere del lavoro rionali (ne nascono cinque, alla Sacca, la Crocetta, San Lazzaro, San Faustino e alla Madonnina), poi sono organizzate presenze sul territorio da parte delle diverse categorie. La stessa Fiom struttura presenze fisse nei quartieri operai, ad esempio in via Paltrinieri dove ora si trova la Polisportiva Sacca.
Per il sindacato dei metalmeccanici la condizione per realizzare una propria sede specifica, distinta da quella della Camera del lavoro, si determina con l’avvio del processo unitario agli inizi degli anni Settanta. La nascita del ‘sindacato dei consigli’, cioè l’affermazione del nuovo modello di rappresentanza operaia dei Consigli di fabbrica, che sostituiscono le vecchie e superate Commissioni interne, e il balzo in avanti delle lotte della fine degli anni Sessanta fino all’introduzione dello Statuto dei lavoratori, aprono un dibattito all’interno del sindacato sulla possibilità di giungere all’unità organica tra le tre confederazioni.
L’esito, più limitato, è la nascita nel 1973 della Federazione Cgil-cisl-Uil. Più avanzata, al punto da configurarsi come sorta di ‘quarto sindacato’, è l’esperienza della Federazione lavoratori metalmeccanici, promossa dai sindacati metalmeccanici Fiom, Fim e Uilm, al punto che si consente la possibilità per il lavoratore di poter risultare iscritto al solo sindacato unitario, senza indicare al momento dell’iscrizione una sigla di appartenenza.
In questo contesto si pone la necessità di dare una identità specifica al sindacato unitario dei metalmeccanici, con l’individuazione di una propria sede. Questa viene individuata in una palazzina in via Mar Ionio 23, proprio alle spalle delle Fonderie riunite, nel quartiere Crocetta, che è acquistata dal sindacato nel 1976.
L’esperienza unitaria si esaurisce nella seconda metà degli anni Ottanta, finisce l’esperienza della Federazione Cgil-Cisl-Uil e della Flm, e via Mar Ionio rimane come sede della sola federazione dei metalmeccanici Cgil. Attualmente oltre alla Fiom è presente anche la sede provinciale della Federconsumatori, costituita a Modena nel 1992.
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S.A.I.M.E.
Le radici storiche della S.A.I.M.E. (Società Anonima Industriale Materiali Edili) risalgono al 1788, quando Pietro Lei apre una fornace di terraglia rossa in via Lea a Sassuolo per la produzione di stoviglieria e vasellame. Nel 1911, l’allora proprietario Francesco Rubbiani cede la fabbrica alla Società Dieci, Bertoli & C. che decide di convertire la produzione verso piastrelle e insegne stradali.
La proprietà viene acquisita nel 1926 dall’ingegnere modenese Guido Siliprandi, già tecnico della Società Ceramica di Sassuolo (Marca Corona). Nel 1932 chiude lo stabilimento in via Lea per aprirne uno più moderno a lato di via Radici in Piano; la nuova fabbrica, pensata per dare lavoro a 350 operai, una volta completata ne occupa oltre 500.
Nel 1938 nasce il marchio S.A.I.M.E., quando l’avvocato modenese Arrigo Gambigliani Zoccoli diventa socio e l’azienda viene rinominata Società Anonima Industrie Materiali Edili. A guerra finita è tra le aziende sassolesi quella che aveva subito i danni maggiori; ma con l’accesso ai fondi provenienti dal piano Marshall si rende possibile una veloce ricostruzione che le permetterà di diventare in breve tempo un’avanguardia del settore.
Gli anni ‘50 vedono l’espansione dell’edilizia, e i fratelli Gambigliani Zoccoli decidono di investire in questo settore. Allora nella fabbrica erano impiegati circa 600 operai; in questo periodo, tra il ‘56-’57, ha luogo una serrata, alla riapertura quasi tutta la Commissione interna era licenziata.
Nel 1987 l’azienda viene rilevata dal Gruppo Ceramico Ri.Wal. e l’attività sospesa per diverso tempo per consentire un’opera di totale ristrutturazione e rinnovamento terminata nel 1996. Nel 2007, in seguito a cambi societari, il Gruppo Ri.Wal. ha trasformato la ragione sociale in Nuova Ri.Wal. Ceramiche S.r.l. entrando a far parte di Casalgrande Padana S.p.a..
Magneti Marelli di Carpi
La filiale carpigiana della società milanese Magneti Marelli inizia la sua attività nel 1940, andando ad occupare l’edificio che ospitava la fabbrica Il Truciolo, ormai in disuso dagli anni Trenta.
Nel contesto proto-industriale di Carpi, che allora era contraddistinto perlopiù da piccole aziende di truciolo in crisi, la Magneti Marelli è una completa novità.
Durante gli anni della guerra permette a centinaia di operai di evitare il richiamo alle armi o l’invio al lavoro in Germania. A quel tempo infatti la produzione era specificatamente bellica, in particolare nello stabilimento “E” si costruivano magneti gemelli per gli aerei tedeschi “Stukas” e per la Bosch, mentre nello stabilimento “C2” candele per motori a scoppio.
Il 28 luglio del 1941 in occasione della sua visita istituzionale a Carpi, il Duce vi si reca come prima tappa, e si congratula con gli operai ravvisando l’alto livello tecnico e di rendimento raggiunti.
I primi contatti cospirativi si hanno già dal secondo semestre del 1941, da parte delle maestranze unite dal sentimento antifascista. Attraverso un paziente lavoro di avvicinamento e formazione politica si riescono ad organizzare cellule embrionali del Partito Comunista tra gli operai, grazie a questo assetto si rende possibile il sempre maggiore incremento dell’attività sabotatrice che raggiungerà il suo apice nei Quarantacinque giorni badogliani, tra il 25 luglio del 1943, data che segna la caduta del fascismo, e l’8 settembre dello stesso anno, quando viene annunciato l’armistizio con gli angloamericani. L’anno successivo proseguono le azioni ed i risultati appaiono evidenti se confrontati i numeri del Programma Bosch imposto dalle autorità tedesche con quelli della produzione effettiva realizzata.
Dopo i bombardamenti aerei del 1944 che avevano provocato danni ai reparti Dinamo, Attrezzeria, Tranceria, Viteria e Lavorazione dinamo, gli operai conducono vere astensioni dall’attività lavorativa con il pretesto del pericolo aereo.
Al fine di salvaguardare le macchine e l’attrezzatura, la Direzione è costretta a decentrare la produzione alla periferia di Carpi: nelle frazioni di San Marino, Migliarina, Budrione, Gargallo e Santa Croce.
Nel frattempo, ci si rende ormai conto che lo stabilimento carpigiano non è più conveniente come all’inizio, e si predispone il piano di liquidazione. A seguito di questo provvedimento inizia la prima ondata di licenziamenti collettivi, in gran parte da attribuirsi allo smantellamento dello stabilimento “C2”. Dei quasi 1200 lavoratori occupati nei due stabilimenti, ne rimangono in forza all’impresa meno di un terzo, a scapito innanzitutto della manodopera femminile che viene drasticamente tagliata.
La riduzione del personale nei fatti rende disponibile sul territorio un patrimonio importante di professionalità ad alta specializzazione, che a partire dagli anni Cinquanta permetterà lo sviluppo del settore industriale e la nascita di un gran numero di nuove attività.
A guerra conclusa il rimanente personale, pur di mantenere la fabbrica a Carpi riconvertendo la produzione, si ingegna in prima persona per trovare nuove commesse: dinamo per autocarri, automotrici ferroviarie con relativi regolatori di tensione. La Marelli di Carpi sembrava sulla strada di una lenta ripresa della produzione, così il sindacato e la commissione interna attraverso una ferma ed efficace opposizione riescono ad evitarne la chiusura.
Gli anni Ottanta e Novanta sono segnati dal profilarsi di un percorso di crisi legato primariamente al calo delle vendite del Gruppo Fiat che l’aveva acquisita. Gli operai, posti con sempre più frequenza in cassa integrazione, chiedono con forza il rilancio dello stabilimento, ma non ne consegue nessun cambiamento significativo. Lo stabilimento di Carpi non viene nè riorganizzato nè rilanciato: nel marzo 1994 si arriva alla vendita definitiva, passando alla divisione accessori auto della Champion di proprietà della multinazionale statunitense Cooper Industries.
La Marelli di Carpi è tutt’ora ricordata per le costanti ed instancabili lotte che l’hanno animata dal principio alla fine, e per il ruolo cardine avuto nello sviluppo industriale del territorio.
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DOCUMENTI
FONTI
Eco di fabbrica. Giornale delle maestranze della Magneti Marelli di Carpi, 1951-1957
BIBLIOGRAFIA
Sara Lodi, Carpi e la Magneti Marelli. Una nuova realtà industriale, Firenze, L’Autore Libri Firenze, 2003
M. Pacor, L. Casali, Lotte sociali e guerriglia in pianura. La Resistenza a Carpi, Soliera, Novi, Campogalliano, Roma, Editori Riuniti, 1972
Samis-Bellentani di Massa Finalese
L’azienda apre nel 1936 come Samis, occupando un centinaio di operai. Nel giro di pochi anni si collega a altre realtà produttive, esprimendo attraverso tre marchi (Bellentani, Cavazzuti, Samis) il meglio dell’industria salumiera modenese.
Dal dopoguerra diventa una delle realtà industriali più significative della Bassa modenese, assumendo per la frazione di Massa Finalese un ruolo decisivo e identitario e arrivando ad avere, nel momento di massima espansione, oltre 400 dipendenti, ai quali vanno aggiunti gli stagionali.
Azienda fortemente sindacalizzata, esprime tra il 1952 e il 1955 un proprio giornale di fabbrica, “La voce del salumiere”. Una delle battaglie più importanti condotte nell’azienda è la conquista della parità salariale uomo-donna.
Nel 1962 la fabbrica passa sotto la gestione pubblica della Montecatini-Montedison e nel giro di pochi anni un’azienda sana e riconosciuta per la qualità dei suoi prodotti entra in crisi per l’inefficienza della direzione e per le scelte della proprietà di investire in altri settori, fino a quando nel 1970 viene minacciata la chiusura e decisi 200 licenziamenti.
Tali scelte sono contrastate con una dura battaglia che raccoglie ampio consenso nel territorio e con l’occupazione per tre mesi della fabbrica. Dopo questa crisi l’azienda passa a un industriale di Brescia, che riapre con 270 operai ma che nel giro di pochi anni porta la fabbrica alla chiusura definitiva, nel 1981.
L’ex salumificio è abbandonato da decenni ed è stato ulteriormente danneggiato dal sisma del 2012.
SILAN di Carpi
La Società importazione lane (Silan) di Carpi è fondata nel 1948 dal giovane imprenditore Renato Crotti, i cui genitori sono titolari in città del negozio di filati ‘La casa della lana’. Due anni dopo apre una tintoria in centro a Carpi, poi installa un reparto per la fabbricazione di tessuti con macchine circolari, dando alla Silan una dimensione ancor più industriale e nazionale. I dipendenti aumentano a 400 e con la produzione di tessuti di lana e di fibre sintetiche la Silan diventa un punto di riferimento della maglieria nazionale e internazionale.
Crotti diventa però famoso non solo per il suo ruolo nella creazione del distretto del tessile-abbigliamento a Carpi, ma per il suo originale approccio all’impegno civile e culturale. Fonda riviste come “Tuttocarpi” e “Tuttomodena”, partecipa alla nascita del “Mulino” a Bologna, crea un salotto culturale a Modena, pubblica libri ma, soprattutto, assurge alla cronaca nazionale e internazionale per l’organizzazione nei primi anni Sessanta di tre viaggi in Unione sovietica rivolti a dipendenti e sindacalisti, per dimostrare le reali condizioni di vita in quel paese, cui seguivano numeri speciali diffusi in centinaia di migliaia di copie.
Nel momento di massima espansione l’azienda ha stabilimenti a Carpi, Novi, Fiorano, Rovigo e Bergamo con oltre 1.360 dipendenti, mentre Crotti è socio di riferimento in quattro aziende negli Stati Uniti e a Portorico. Nei primi anni Settanta realizza a Varsavia, per contro del governo polacco, uno stabilimento tessile.
Sono diverse le vertenze sindacali che coinvolgono l’azienda, nel 1966 per il rinnovo del contratto integrativo, nel 1969 per ottenere maggiori garanzie rispetto all’ambiente di lavoro e alla prevenzione antinfortunistica, fino alla vertenza più importante che inizia nel 1975, quando l’azienda arriva sull’orlo del fallimento per il crollo del settore dei filati. Dopo un anno di presidio e di impegno del sindacato nel reinserimento dei lavoratori in altre aziende, nasce la Nuova Silan che riutilizza la stessa azienda e macchinari e che si trasforma nel 1981 nella DMR.
Lo stabilimento è stato demolito e al suo posto è stato realizzato il parco Unità d’Italia.
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FONTI
BIBLIOGRAFIA
Cgil Carpi, Da sfruttati a protagonisti, Carpi, Centro stampa del Comune di Carpi, 1981
SIPE di Spilamberto
La Sipe di Spilamberto rimanda a una storia secolare, risalente al XVI secolo quando sotto il duca Alfonso I d’Este si iniziò a produrre polvere da sparo. Nel 1761 nasce la Polveriera che nel 1869 diventa di proprietà degli imprenditori Osti e Pallotti. Nel 1901 è acquistata dalla Società italiana prodotti esplodenti, nata a Milano dieci anni prima.
L’azienda conosce un notevole sviluppo negli anni della Prima guerra mondiale, grazie alla produzione delle famose bombe a mano Sipe. Negli stessi anni avvengono importanti agitazioni sindacali, nel 1916 per l’aumento di paga delle donne, sempre più numerose, nel 1917 per gli uomini. Nel dopoguerra l’inevitabile crisi porta allo scioglimento della Sipe, che rinasce con la stessa sigla nel 1923, ma con polveri al posto di prodotti.
Il momento di maggiore espansione dell’azienda si registra nella seconda metà degli anni Trenta, con la dichiarazione, nel 1935, di «stabilimento di fondamentale importanza ai fini della produzione bellica» e l’aumento delle commesse legate alle imprese di Etiopia e Spagna e poi alla produzione di mine navali. I dipendenti, 1.502 nel 1938, diventano 4.676 nel settembre 1941 (per il 70 per cento donne), per poi calare drasticamente dopo il 1943. Nonostante la militarizzazione della fabbrica non mancano le proteste e gli scioperi, in particolare nel 1941 e nel 1943, con conseguenti arresti e licenziamenti.
Dopo la fine della guerra il numero dei dipendenti si assesta intorno ai 400-500 e l’attività riguarda la produzione di dinamite e di razzi antigrandine. Notevole la presenza sindacale, che si manifesta anche nella pubblicazione del giornale di fabbrica “Il torrione” che esce dal 1951 al 1957. Molte iniziative riguardano il tema della sicurezza sul lavoro, dal momento che periodicamente si verificano esplosioni con feriti e morti. Infatti, nel corso della sua attività muoiono alla Sipe 45 lavoratori.
Alla fine degli anni Settanta la fabbrica è acquistata dalla Snia Viscosa, diventando Sipe-Nobel, per poi passare al gruppo Fiat. Inizia intanto il suo declino produttivo e nel 1992 è ceduta alla Société Nationale des Poudres et Explosifs di Bergerac, che trasferisce la produzione in Repubblica Ceca. Lo stabilimento cessa ogni attività nel 1995.
Collegamenti
Lapide eccidio 7 aprile 1920
La memoria dell’eccidio di Piazza Grande a Modena del 7 aprile 1920 è stata per lungo tempo molto labile. Scontato il silenzio dell’episodio durante il ventennio fascista, nemmeno dopo il 1945 vi è stata una particolare attenzione verso una vicenda così drammatica, che ha causato la morte di cinque lavoratori durante una manifestazione sindacale. Neppure l’eccidio davanti alle Fonderie riunite il 9 gennaio 1950 ha sollecitato, a quanto è risaputo, collegamenti o richiami alla vicenda accaduta trent’anni prima.
Per decenni, un episodio che ha visto coinvolti lavoratori di diversa o nessuna appartenenza politica è stato assunto come elemento identitario solo per il movimento anarchico modenese. In particolare, dal 2005 ogni 7 aprile gli anarchici celebrano l’eccidio in Piazza Grande, per poi chiedere senza successo al Comune di Modena di poter apporre una targa da loro realizzata con il seguente testo: A ricordo di / Linda Levoni di anni 18 / Antonio Amici di anni 33 / Evaristo Rastelli di anni 35 / Stella Zanetti di anni 37 / Ferdinando Gatti di anni 49 / qui uccisi il 7 aprile 1920 dai regi carabinieri / sangue proletario per un mondo di solidarietà / di uguaglianza e di libertà / 7 aprile 2016 / Gli anarchici.
Intanto, finalmente anche il Comune di Modena prende atto della vicenda e chiede all’Istituto storico di promuovere un convegno storico, che si tiene il 3 aprile 2014. Due anni dopo, anche per sollecitazione di alcune forze politiche e dei sindacati, è inaugurata di fianco allo scalone che porta in municipio una targa in marmo con il seguente testo:
LA CITTÀ DI MODENA
IN MEMORIA
DEI CADUTI PER IL LAVORO E PER I DIRITTI DEI LAVORATORI
NELL’ECCIDIO DEL 7 APRILE 1920
LINDA LEVONI
STELLA ZANETTI
ANTONIO AMICI
EVARSTO RASTELLI
FERDINANDO GATTI
7 APRILE 2016 COMUNE DI MODENA