L'esperienza dei giornali di fabbrica
Durante un periodo duro per la classe lavoratrice come furono gli anni Cinquanta, nelle fabbriche si sviluppa la straordinaria esperienza della stampa operaia. In risposta all’ostinata offensiva padronale contro le Commissioni interne, ai licenziamenti di massa e ai soprusi quotidiani, i lavoratori grazie al sostegno del Partito comunista si dotano di uno strumento unitario per far sentire la loro voce e con il quale denunciare i metodi industriali e di governo.
In questa vicenda Modena assume un ruolo di spicco, raggiungendo il primato nazionale in termini quantitativi nelle pubblicazioni di questo tipo; tra il 1949 e il 1956, infatti, escono qui più di quaranta giornali di fabbrica. Tra le tante testate si possono citare “Il Trattore” della Fiat Oci, “Il crogiuolo” delle Fonderie riunite poi sostituito da “La voce delle Fonderie”, “Il Lingotto modenese” delle Acciaierie e Ferriere, “La guida” delle Alfieri Maserati; “Tribuna aperta” della Manifattura Tabacchi, “La voce del salumiere” della Samis di Massa finalese, “L’Eco di fabbrica” della Magneti Marelli di Carpi, “Il Torrione” della Sipe di Spilamberto.
Elemento interessante da sottolineare è come nel nostro territorio riescono ad avere il loro giornale anche i lavoratori di alcune aziende agricole, aspetto di grande originalità all’interno del panorama nazionale.
Nel breve tempo, però, queste pubblicazioni e chi vi collaborava diventano sempre più scomodi agli occhi delle direzioni aziendali e delle autorità, esponendo i militanti della Cgil ad una sistematica azione repressiva. Ad inasprire ulteriormente il clima di conflitto era anche il peso che, specialmente nell’ultima fase di esistenza dei giornali, la Federazione comunista modenese aveva assunto sui contenuti politici.
Questi limiti evidenti mettono i giornalisti operai nelle condizioni di non poter più portare avanti il loro impegno nel dare voce ai problemi dei lavoratori nelle loro aziende, e intorno alla metà degli anni Cinquanta la spinta propulsiva che aveva dato vita a questa esperienza si esaurisce progressivamente, salvo ripresentarsi in epoche successive in singole aziende e non più come movimento generale.
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DOCUMENTI
FONTI
IS Modena, Archivio PCI
BIBLIOGRAFIA
Claudio Novelli, Giornalisti di fabbrica. Lotte sociali e cultura operaia a Modena 1949/1956, Roma, Ediesse, 1996
Vertenza delle donne alla Fiat-Oci
Nella primavera 1977 a Modena la Federazione lavoratori metalmeccanici (Flm) coinvolge il movimento delle donne organizzate e i gruppi femministi nella vertenza con la Fiat-Oci, chiedendo migliori condizioni di lavoro, sicurezza ambientale, controlli sanitari, riorganizzazione dei reparti e quantificazione e programmazione di nuove assunzioni tra cui l’inserimento di manodopera femminile nel ciclo produttivo dell’azienda.
A inizio aprile il Consiglio di fabbrica e quello sindacale di zona promuovono il primo momento di dibattito a cui sono invitate le organizzazioni femminili, giovanili e studentesche. A maggio si forma il “Comitato di lotta per l’occupazione femminile alla Fiat”, composto da disoccupate che hanno presentato domanda di assunzione. Il Comitato, appoggiato da Udi, Collettivo femminista modenese e Gruppo del salario al lavoro domestico, e che collabora con il Consiglio di fabbrica e quello di zona, chiede l’inserimento definitivo di un numero consistente di donne senza preclusione di reparto, con opportunità di qualificazione professionale e migliori condizioni di lavoro.
A spingere gli attori sociali c’è la consapevolezza che emancipazione e liberazione non possano esistere senza protagonismo femminile e indipendenza economica. Si inizia così a costruire una strategia comune per il diritto al lavoro come risposta alla diffusa esigenza di parità, anche nella provincia di Modena, che registra una percentuale più alta di donne occupate rispetto alla media nazionale.
Dopo accanite contrattazioni, il 29 ottobre si raggiunge l’accordo su occupazione femminile, organizzazione del lavoro e ambiente. Settanta donne varcano i cancelli della Fiat e vengono inserite in tre diversi reparti produttivi; mentre l’azienda si impegna a verificare, in base alle previsioni occupazionali, la possibilità di ulteriori inserimenti di personale femminile. Da questa esperienza nasce l’idea di una “Carta di impegno di lotta e di proposta delle donne modenesi” con progetti per cambiare la qualità della vita, l’organizzazione del lavoro e la società intera.
Questa vertenza rappresenta un momento di crescita per il movimento femminile e per quello sindacale che ha spinto le donne ad aggregarsi all’interno del sindacato.
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FONTI
Nadia Pioppi, Diario di una giornata diversa, Archivio CDD
Archivio fotografico Udi Modena-CDD
BIBLIOGRAFIA
Vertenza Fiat 1955
In marzo la CGIL subisce una pesante sconfitta nelle elezioni per la Commissione interna alla Fiat, diventando il secondo sindacato dopo la CISL.
Da diverso tempo l’azienda minaccia i diritti dei lavoratori con l’intenzione di chiudere la sede interna della commissione e di impedire ai suoi membri di muoversi dal posto di lavoro. Frequenti sono inoltre i ricatti e le intimidazioni nei confronti dei militanti della CGIL. In questo quadro, in occasione delle elezioni, i dipendenti ricevono delle lettere personali nelle quali li si invita a non votare la FIOM.
A Modena, nonostante il timore di subire una sconfitta come avvenuto a Torino, i risultati si dimostrano confortanti. Nei due stabilimenti Fiat è confermata una buona tenuta della FIOM: alla Fiat-Oci ottiene in definitiva il 76 per cento dei voti rispetto al 90 per cento dell’anno precedente.
Dopo il rinnovo delle Commissioni interne, la Fiat riduce l’orario di lavoro nei suoi due stabilimenti modenesi, prima a 40 poi a 32 ore. E nel settembre del 1955 l’azienda richiede 320 licenziamenti. In una prima fase tutti e tre i sindacati reagiscono unitariamente, ma poi la decisione di occupare la fabbrica provoca una spaccatura tra la CGIL da una parte e CISL e UIL dall’altra.
Finita l’occupazione la Fiat accetta di ridurre il numero dei licenziamenti, ma aggiunge alla lista i membri della Commissione interna. Un nuovo sciopero generale fallisce proprio alla Fiat, e mette la parola fine alla vertenza: sono licenziati 248 lavoratori, il 20 per cento dei dipendenti della Fiat, e sospesi altri 150. I quasi quattrocento lavoratori coinvolti sono tutti iscritti alla FIOM, 210 al PCI, 6 al PSI, nessuno risulta iscritto a partiti dell’area di governo o a CISL e UIL. Gli altri lavoratori di sinistra non licenziati sono trasferiti e isolati in ‘reparti confino’, mentre CISL e UIL firmano con l’azienda un accordo separato sui tempi. Dei licenziati, 24 sono operai specializzati e 128 qualificati: molti di loro apriranno poi piccole aziende artigiane, alcune delle quali lavoreranno poi nell’indotto Fiat.
Si tratta dunque di una pesante sconfitta per la CGIL, che mette in luce la contraddizione tra la sua notevole forza organizzativa, confermata dai risultati delle elezioni delle Commissioni interne, e la diminuita capacità contrattuale.
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FONTI
BIBLIOGRAFIA
Lorenzo Bertucelli, “Costruire la democrazia”. La Camera del lavoro di Modena (1945-1962) in Lorenzo Bertucelli, Claudia Finetti, Marco Minardi, Amedeo Osti Guerrazzi, Un secolo di Sindacato. La Camera del lavoro a Modena nel Novecento, Roma, Ediesse, 2001
Amedeo Osti Guerrazzi, Claudio Silingardi, Storia del sindacato a Modena 1880-1980, Roma, Ediesse, 2002
Sciopero dei braccianti
Le proteste dei braccianti sfociano nello sciopero nazionale del settembre 1947, dove le richieste riguardano gli orari di lavoro, la contingenza, gli assegni familiari, ma soprattutto l’imponibile di manodopera e il ‘collocamento di classe’. Richieste che intendono modernizzare un rapporto di lavoro ancora basato in buona parte sull’assunzione ‘uno alla volta’. La battaglia per il collocamento di classe (gestito, cioè, dal sindacato) vuole quindi dare una risposta definitiva ad una lotta che si protrae da quasi cinquant’anni.
L’agitazione si svolge con la tattica dello ‘sciopero a rovescio’. Senza l’assenso dei proprietari, i lavoratori si recano in massa sui fondi e scavano canali di scolo, ripuliscono fossati, sistemano vigneti e frutteti, livellano campi sotto la guida dei consigli d’azienda dei mezzadri che indicano loro quali operazioni eseguire. Questa inedita alleanza tra le due più importanti categorie di lavoratori della terra permette di superare un distacco ‘storico’, e di isolare la grande proprietà terriera.
La lotta nell’Italia settentrionale si conclude il 20 settembre, mentre nel modenese prosegue fino al 17 dicembre, riuscendo a strappare alcuni vantaggi soprattutto per quanto riguarda il collocamento. Il 15 aprile del 1948, tuttavia, con il decreto Fanfani, il governo sottrae agli uffici di collocamento del sindacato le loro competenze per darle a quelli statali, gli Uffici del lavoro. La conversione in legge del decreto ottiene il voto delle sinistre in Parlamento, giustificato col fatto di rappresentare un passo in avanti per tutta l’Italia, anche se uno indietro per le provincie più avanzate dell’Emilia.
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Amedeo Osti Guerrazzi, Claudio Silingardi, Storia del sindacato a Modena 1880-1980, Roma, Ediesse, 2002
Lorenzo Bertucelli, “Costruire la democrazia”. La Camera del lavoro di Modena (1945-1962) in Lorenzo Bertucelli, Claudia Finetti, Marco Minardi, Amedeo Osti Guerrazzi, Un secolo di Sindacato. La Camera del lavoro a Modena nel Novecento, Roma, Ediesse, 2001
Vertenza mezzadrile
Finita la guerra, il mondo delle campagne è in subbuglio. I braccianti e mezzadri che hanno contribuito alla lotta di liberazione e che aderiscono in massa alla Camera confederale del lavoro, ora si aspettano un cambiamento radicale nei rapporti con i proprietari terrieri.
Gli episodi di ribellismo, specialmente nella bassa modenese, si fanno sempre più frequenti: a Mirandola, a San Felice sul Panaro e nel Carpigiano si verificano irruzioni di lavoratori negli uffici comunali e nei negozi di alimentari.
La Federmezzadri è impegnata nella lotta per il rinnovo dei patti colonici. Le richieste sono la modifica del riparto, ovvero portare al 60 per cento la quota del prodotto per i lavoratori, la direzione paritetica dell’azienda, l’eliminazione delle regalie e la ‘giusta causa’ per l’escomio.
Per la Camera confederale del lavoro affrontare in maniera limpida la situazione è particolarmente difficile, a causa delle complesse stratificazioni sociali presenti nelle campagne. Inizialmente, infatti, vi è una certa ostilità verso i mezzadri e i piccoli proprietari; vengono fatti prevalere gli interessi dei braccianti, considerati i veri proletari della terra. In provincia, chi si batte con particolare accanimento per cambiare questi indirizzi è Olinto Cremaschi, segretario della Federmezzadri.
La lotta comincia con i mezzadri che decidono di trattenere il 10 per cento in più dei prodotti, modificando con decisione unilaterale il riparto; sono creati dei Consigli unitari aziendali; le regalie invece di essere consegnate ai padroni sono donate agli ospedali e agli ospizi. Nel novembre del 1945 viene inoltre promossa una imponente manifestazione a cui partecipano oltre 50.000 contadini. In un clima politico oramai esasperato, il 21 marzo del 1946 una manifestazione di agricoltori degenera in un assalto alla sede della Confida nel capoluogo, mentre l’attività dei consigli aziendali si fa sempre più intensa, arrivando ad esautorare di fatto la proprietà di alcuni grandi proprietari.
L’asprezza dello scontro è tale che dopo l’intervento del presidente del consiglio Ferruccio Parri con la richiesta di mediazione al prefetto di Modena, anche la CGIL nazionale invoca l’intervento statale. Il nuovo presidente del consiglio De Gasperi risponde con il cosiddetto ‘lodo De Gasperi’ che però, a causa delle resistenze degli agrari, non viene discusso fino all’aprile del 1947. Nel giugno dello stesso anno, finalmente, il lodo viene convertito in legge, con il risultato che il riparto viene modificato con il 3 per cento in più della quota ai lavoratori, ed un altro 4 per cento viene obbligatoriamente destinato a migliorie sul fondo.
L’accordo porta una breve tregua tra mezzadri e agrari, ma la pacificazione delle campagne dura ben poco, perché nel frattempo cominciano ad agitarsi i braccianti. La mobilitazione di questa categoria culmina nello sciopero nazionale del settembre 1947.
Solo da settembre a dicembre 1947 per queste lotte sono incriminati 94 lavoratori, fermati 2.800, 10 rimangono feriti e 337 percossi dalle forze dell’ordine. Tante sono anche le cause civili, che si trascinano per anni, e molti gli escomi delle famiglie mezzadrili più impegnate nella lotta.
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BIBLIOGRAFIA
Amedeo Osti Guerrazzi, Claudio Silingardi, Storia del sindacato a Modena 1880-1980, Roma, Ediesse, 2002
Lorenzo Bertucelli, “Costruire la democrazia”. La Camera del lavoro di Modena (1945-1962) in Lorenzo Bertucelli, Claudia Finetti, Marco Minardi, Amedeo Osti Guerrazzi, Un secolo di Sindacato. La Camera del lavoro a Modena nel Novecento, Roma, Ediesse, 2001
L'occupazione delle fabbriche
A Modena l’agitazione dei lavoratori metallurgici, già in fermento altrove dalla primavera del 1920, esplode nella seconda metà dello stesso anno, con l’occupazione delle fabbriche.
A luglio gli operai del capoluogo presentano un memoriale, firmato dal loro segretario Forghieri, in cui rivendicano l’orario di otto ore, il riconoscimento della lega, dell’ufficio di collocamento, della Commissione interna, aumenti salariali, limitazioni agli straordinari e l’indennità di licenziamento. A queste richieste gli industriali rispondono con una serrata a livello nazionale.
Il comizio del 25 agosto dell’allora segretario generale della Federazione Impiegati Operai Metallurgici (Fiom), Bruno Buozzi, apre la vertenza preparando all’occupazione. Il 3 settembre gli operai iniziano a prendere possesso dei primi tre stabilimenti aderenti all’Associazione sindacale industriali metallurgici: le officine fonderie Corni, le officine meccaniche Rizzi e la ditta Neri e Vezzani. Il giorno seguente si aggiungono anche le Officine Meccaniche italiane (ex proiettificio di Modena), dove tra gli operai è presente anche un gruppo di una quarantina di anarchici.
L’occupazione a Modena dura un mese e vede coinvolti complessivamente circa 800 lavoratori. Come riportato dai bollettini inviati al regio commissario Italo Pio e al segretario generale del Comune da parte dell’Assessorato del lavoro, che insieme alla forza pubblica aveva il compito di monitorare la vicenda, tutto si è svolto “con ordine e con la massima disciplina”.
Il tentativo di organizzare Guardie rosse qui accoglie qualche aderente, ma senza riscontrare grande successo in definitiva, a confutare il “pericolo rosso” gonfiato strumentalmente dalla classe padronale e conservatrice. Indubbio invece che questa è l’occasione per misurare la forza del movimento operaio all’interno degli stabilimenti, contribuendo a creare il clima politico e sociale responsabile dei risultati delle elezioni tenute in ottobre, che sanciscono il trionfo dei Psi a Modena e in tutta Italia.
L’occupazione si conclude a Modena, così come nel resto del Paese, con un accordo firmato il 1 ottobre tra Buozzi per la Fiom e Federico Jarach per la Federazione nazionale industrie meccaniche e metallurgiche.
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BIBLIOGRAFIA
Fabio Montella, Bagliori d’incendio. Conflitti politici a Modena e provincia tra guerra di Libia e marcia su Roma, Milano, Mimesis, 2021
Lorenzo Bertucelli, Claudia Finetti, Marco Minardi, Amedeo Osti Guerrazzi, Un secolo di Sindacato. La Camera del lavoro a Modena nel Novecento, Roma, Ediesse, 2001
Vertenza bosco della Saliceta
Nel dopoguerra l’occupazione non riparte immediatamente. Il bisogno di lavoro per riuscire a sopravvivere è impellente e spinge i braccianti disoccupati della zona a battersi, con scioperi a rovescio e invasioni del bosco. Il sindacato organizza i gruppi di giovani disoccupati per disboscare e rendere coltivabili i terreni.
È costituita una cooperativa di lavoro che inizia una trattativa con la proprietà per l’acquisto, ma questa linea trova la forte opposizione di una parte del PCI, sia locale che nazionale.
Nel 1948 il bosco è comprato da una cooperativa bianca, sostenuta dalla DC e dalla LCGIL, che sfrutta le provvidenze governative a favore della piccola proprietà contadina. Questa conclusione della vicenda provoca tensioni e scontri tra braccianti della Camera del lavoro e i lavoratori della cooperativa cattolica, e si ripetono manifestazioni e occupazioni del bosco. Significativo lo slogan della LCGIL “Non più proletari, ma tutti proprietari.”
Nel 1951 il disboscamento è completato, e la terra viene poi divisa in 80 poderi, assegnati ad altrettante famiglie, quasi tutte di «provata fede democristiana».
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BIBLIOGRAFIA
Amedeo Osti Guerrazzi, Claudio Silingardi, Storia del sindacato a Modena 1880-1980, Roma, Ediesse, 2002
Lorenzo Bertucelli, “Costruire la democrazia”. La Camera del lavoro di Modena (1945-1962) in Lorenzo Bertucelli, Claudia Finetti, Marco Minardi, Amedeo Osti Guerrazzi, Un secolo di Sindacato. La Camera del lavoro a Modena nel Novecento, Roma, Ediesse, 2001
Canale Sabbioncello
Una delle lotte più significative condotte nella Bassa modenese nei primi anni del dopoguerra è quella relativa al Sabbioncello. Obiettivo la realizzazione di un impianto di derivazione sul fiume Po che consentisse l’irrigazione di buona parte della bassa pianura, realizzando un canale principale e alcuni canali collettori, tra cui quello di Gavello. Tale progetto è fortemente sostenuto dal sindacato perché può garantire un significativo sbocco occupazionale per molti disoccupati agricoli. I lavori iniziano nell’ottobre 1946, ma sono poi sospesi per opposizione del Consorzio della bonifica di Revere. Dopo una manifestazione a Mirandola il 30 dicembre, vengono stanziati finanziamenti per proseguire lavori.
Da questo momento si sviluppa un movimento di lotta con occupazioni simboliche e manifestazioni a Mirandola, Concordia, Medolla, San Possidonio per iniziare e completare le opere sia del Sabbioncello che del canale Gavello.
Tali opere sono inserite nel ‘Piano per la rinascita dell’economia provinciale’ presentato dal Consiglio generale dei sindacati e delle leghe della CGIL di Modena il 28 ottobre 1949. Infatti, nel ‘Piano del lavoro’ modenese sono avanzate le proposte di iniziare un vasto piano di lavori di bonifica e di miglioramento fondiario, attraverso la ultimazione del canale Sabbioncello, la sistemazione dei canali Torbido e Chiaro, il completamento del piano irriguo e di bonifica della Parmigiana Moglia e della Burana, un piano di rimboschimento montano, la costruzione immediata degli acquedotti rurali, in particolare nella bassa modenese e la unificazione dei vari consorzi di bonifica.
Il 14 dicembre 1952 a Mirandola si tiene un convegno interprovinciale sull’irrigazione per la rinascita del comprensorio di Burana, dove si chiede ancora il completamento dell’impianto di derivazione del Sabbioncello e del relativo canale. Una manifestazione di oltre 10.000 lavoratori viene promossa dal sindacato nell’aprile 1953. Finalmente nel 1955 è approvata la costruzione del canale di Gavello.
L’impianto è entrato in funzione nel 1958 ed è tuttora il principale impianto di derivazione per l’approvvigionamento idrico della pianura modenese, sia per l’irrigazione che per l’ambiente.
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BIBLIOGRAFIA
Amedeo Osti Guerrazzi, Claudio Silingardi, Storia del sindacato a Modena 1880-1980, Roma, Ediesse, 2002
Vertenza delle ceramiste
Tra gli anni ‘60-’70 le ripercussioni che la lavorazione dell’argilla aveva sulla salute dei lavoratori entrano per la prima volta nel dibattito pubblico. Il comprensorio ceramico di Sassuolo è il territorio con la più alta concentrazione di aziende produttrici di piastrelle di ceramica a livello mondiale, e gli operai ceramisti esposti ad un ambiente di lavoro malsano sviluppano nel tempo severe patologie professionali.
In questo contesto, le donne sono maggiormente a rischio. Il tasso di aborti bianchi e di parti prematuri registra qui i livelli più alti di tutta la regione. Inoltre, la maggioranza delle donne dopo il matrimonio e la nascita dei figli è costretta ad abbandonare la fabbrica. Da un lato, è la mancanza di servizi sociali adeguati ad imporre loro questa decisione, poiché su di esse grava interamente il lavoro di cura della famiglia e della casa. Dall’altro, i datori di lavoro si mostrano sempre più inclini a licenziare le donne che contraevano matrimonio.
Le necessità economiche e la crescente consapevolezza dei propri diritti pongono le basi della lotta per la tutela della maternità, che non doveva più essere motivo di espulsione della donna dal mercato del lavoro. Proposta da Teresa Noce, il 26 agosto del 1950 era stata approvata la legge n° 860, inerente la tutela delle lavoratrici madri. Prevedeva, tra le novità più importanti, il divieto di licenziamento durante il periodo di gestazione e l’allestimento di camere di allattamento e di asili aziendali ed interaziendali in tutte le imprese in cui fossero occupate più di trenta donne in età feconda e coniugate. Tuttavia questo provvedimento non risulta soddisfacente perché, oltre ad escludere di fatto le madri nubili e ad essere solo parzialmente risolutivo, si fatica a raggiungere la sua completa applicazione e ha come effetto collaterale l’impennata dei licenziamenti preventivi. Solo il 9 gennaio del 1963 viene approvata la legge che introduce il divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio, ma anche questa non porterà i risultati sperati.
A cavallo dei decenni ‘60-’70 la riflessione delle donne, stimolata dal fermento dei movimenti femminili, segna una profonda fase di trasformazione sociale che avrà il momento di maggiore splendore negli anni settanta.
L’8 marzo 1970 è un’occasione per denunciare la situazione delle lavoratrici. L’UDI e le Cdl di Sassuolo, Formigine Fiorano e Maranello esortano lavoratrici e lavoratori ad aprire una vertenza per chiedere ai rispettivi comuni l’istituzione di Usl e di un numero sufficiente di nidi a soddisfare il bisogno; sollecitare i datori di lavoro per l’inserimento, nel nuovo contratto nazionale dei ceramisti, di norme a tutela della salute del lavoratore e per la mutualizzazione dei contributi per gli asili nido; il governo, per il rispetto del piano sugli asili nido richiesto dai sindacati e dalle associazioni femminili attraverso proposte di legge.
A settembre dell’anno successivo viene promulgata la legge n° 1204 a tutela delle lavoratrici madri, che consente loro di allontanarsi sin dall’inizio della gravidanza, e per i sette mesi successivi al parto, da determinate condizioni di lavoro riconosciute come particolarmente nocive, e che dagli studi condotti risultano tutte contemporaneamente presenti nell’industria ceramica. Tuttavia la mancanza d’informazione, e quindi la mancanza di una reale attività di prevenzione anche dopo questo traguardo legislativo, rappresenta uno scoglio importante che vedrà anche in questo caso l’impegno attivo del sindacato insieme alle associazioni femminili.
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FONTI
BIBLIOGRAFIA
Francesco Genitoni, Paola Gemelli, Il lavoro: tra fabbrica e vita, Fiorano Modenese, Comune di Fiorano Modenese, 2007
Ludovica Cottica, Le braccia e il cuore, Bologna, Graficolor, 1995
Adriana Barbolini (a cura di), Cuocere la terra, piastrellare il mondo. Narrazioni del mondo ceramico, Modena, Litotipografia Poppi, 2014
Lo sciopero dei mezzadri e boari di Rovereto sulla Secchia
A Rovereto sulla Secchia, borgo tra Carpi e Novi di Modena, già dal 1907 si tenta di organizzare i mezzadri e i boari della zona ma nel giro di pochi anni si assiste a una radicalizzazione dei rapporti tra agrari e lavoratori: infatti, nel 1910 da un lato si costituisce l’Associazione degli agrari di Novi, poi a Carpi, che si dota anche di un bollettino, in collegamento diretto con l’Agraria di Parma, protagonista della lotta contro i lavoratori durante lo sciopero del 1908; dall’altro lato, nello stesso anno si consolidano le organizzazioni operaie – quindici leghe con un migliaio di iscritti – nasce la Casa del popolo che affianca la cooperativa di consumo e si costituisce la Lega dei mezzadri.
Nel febbraio 1912 sono presentate le proposte di nuovi patti di mezzadria e boaria, ma gli agrari rifiutano gli incontri. Gli obiettivi della lotta sono importanti e impegnativi: divisione dei fondi in tre categorie e articolazione del riparto prodotti, divieto della ‘zerla’ (cioè lo scambio di lavori tra famiglie mezzadrili), assunzione degli avventizi a carico del proprietario, assunzione solo dei lavoratori organizzati, passaggio dal contratto annuale a uno triennale.
Il 1° marzo è proclamato lo sciopero, ma mentre alcuni proprietari cedono accettando le nuove proposte, alcuni grandi agrari spalleggiati dall’Agraria decidono di resistere, costituendo l’Associazione fra proprietari e conduttori di fondi della villa di Rovereto. Le organizzazioni sindacali colgono immediatamente la volontà degli agrari di fare di Rovereto una ‘lotta esemplare’ e un appello firmato dalle tre Camere del lavoro provinciali mette in conto uno sciopero generale. Anche la Federterra nazionale appoggia la lotta, ed è avviata una sottoscrizione pubblica pro-scioperanti che raccoglie 8.500 lire.
Alla fine di marzo, dal momento che molti agrari hanno accettato i nuovi patti lo sciopero viene sospeso e si decide di passare al boicottaggio delle aziende che non hanno firmato. Gli agrari rispondono escomiando i mezzadri e chiedendo l’intervento delle autorità. Tra tentativi di mediazione e repressione con arresti dei principali esponenti per ‘attentato alla libertà del lavoro’ l’agitazione continua e il 23 maggio è proclamato un nuovo sciopero generale dopo l’arrivo dal veneto di quaranta crumiri, con diecimila lavoratori che protestano a Carpi.
Intanto la lotta si radicalizza con danneggiamento di macchine per la trebbiatura, taglio delle viti, incendi dei fienili, minacce a agrari e crumiri. Rovereto è presidiata da quaranta carabinieri e da un reparto di 30 lancieri, ci sono continui cortei e comizi con i principali dirigenti locali e nazionali del sindacato, mentre nella Casa del popolo è organizzata una ‘cucina socialista’ per dare pasti agli scioperanti.
Ormai però comincia a serpeggiare stanchezza e il 23 agosto, dopo sei mesi di lotta, il Comitato d’agitazione decide di sospendere l’agitazione, che si conclude con una parziale sconfitta dei lavoratori e soprattutto del sindacato locale (la lega dei mezzadri si sfalda), che non riesce ad ottenere il patto unico (ogni azienda fa accordi individuali) e l’abolizione della ‘zerla’, mentre viene eliminata la terzeria e concordata la divisione a metà dei prodotti.
In ogni caso, anche nei mesi successivi continueranno le agitazioni, perché rimane alta la disoccupazione anche per la crisi del truciolo, non sono attuati lavori pubblici e interventi di bonifica e permane una situazione di miseria diffusa. Lo sciopero del 1912 ha alcune caratteristiche importanti: è una esperienza di lotta unitaria, produce un moto di solidarietà che esce dalla dimensione provinciale, fa emergere alcune figure di agitatori che avranno un ruolo negli anni successivi e consolida ulteriormente l’identità di Rovereto come paese ‘sovversivo’.
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FONTI
BIBLIOGRAFIA
Amedeo Osti Guerrazzi, Lotte rivendicative e tensioni rivoluzionarie (1900-1914), in Lorenzo Bertucelli et al., Un secolo di sindacato. La Camera del lavoro a Modena nel Novecento, Roma, Ediesse, 2001
I “figli dei serrati”
A partire dai primi grandi scioperi di inizio secolo sono organizzate azioni di solidarietà a favore degli scioperanti e, in alcuni casi, verso i loro figli, che vanno oltre la dimensione locale o territoriale. Accade nel 1907 in occasione dello sciopero agrario di Argenta, nel ferrarese, quando alcune decine di bambini sono ospitati dalla Camera del lavoro di Bologna. Una vicenda analoga coinvolge i figli degli operai siderurgici di Terni, durante la serrata della fabbrica. Altre iniziative di solidarietà sono attuate durante il grande sciopero agrario nel parmense nel 1908: anche in questo caso i figli degli scioperanti sono ospitati in diverse località italiane.
L’episodio più noto nel periodo giolittiano è quello che coinvolge i figli degli scioperanti di Piombino e Portoferraio nel 1911. A poche settimane dall’inizio della guerra italo-turca è attuata un’operazione di accorpamento e riorganizzazione dell’industria mineraria e siderurgica, con la nascita del Consorzio ILVA – composto da sei imprese siderurgiche nazionali – che si prepara a ottenere larghi guadagni grazie alla produzione bellica.
La sospensione dell’indennità per i lavoratori del reparto laminatoi porta i lavoratori di Piombino a entrare in sciopero nel luglio 1911, mentre a Portoferraio è per la riduzione degli addetti alle squadre di colata della ghisa che i lavoratori entrano in agitazione. Alla protesta si uniscono anche i marinai elbani. La risposta del Consorzio è la serrata e licenziamenti, mentre a più riprese la polizia interviene a reprimere gli scioperanti.
In una situazione davvero difficile – lo sciopero durerà 135 giorni, per poi concludersi con una pesante sconfitta per i lavoratori, con oltre mille licenziati e riduzioni di paghe – alcune Camere del lavoro decidono di accogliere i figli degli operai piombinesi e elbani.
Il primo treno con ottanta bambini parte da Piombino il 20 agosto. Altri partiranno nei giorni successivi. I ‘figli dei serrati’ sono ospitati in Lombardi e Emilia-Romagna. Nel modenese i bambini sono accolti a Mirandola, Cavezzo e Modena, per iniziativa delle locali Camere del lavoro.
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BIBLIOGRAFIA
Mirco Carrattieri, Una tradizione di accoglienza, in Accogliere. Una storia di settanta anni fa, 1946-1948, quando gli Emiliani accolsero i bambini napoletani dopo la guerra, numero speciale di ‘Infiniti mondi’, n. 7, novembre/dicembre 2018
Il primo “1° maggio” a Modena
Intorno alla metà dell’Ottocento inizia a farsi strada l’esigenza di contrastare lo sfruttamento indiscriminato dei lavoratori di fabbrica, in particolare rispetto agli orari di lavoro, che potevano raggiungere le 15 ore giornaliere. L’obiettivo delle 8 ore di lavoro, 8 ore di svago, 8 ore di sonno viene assunto dalla Prima Internazionale nel congresso di Ginevra del 1866.
In particolare, è negli Stati Uniti – nello specifico nello Stato dell’Illinois – che per la prima volta una legge, largamente inapplicata, stabilisce il diritto alla giornata lavorativa di otto ore. Proprio per celebrare questa legge il 1° maggio 1886 è organizzata a Chicago una grande manifestazione, mentre altre si svolgono nei giorni successivi, duramente represse dalla polizia con decine di morti. In occasione di una di queste, il 4 maggio a Haymarket Square, una bomba è lanciata contro la polizia, causando alcuni morti. Ad essere accusati sono gli anarchici e quattro loro esponenti sono condannati a morte e impiccati nel novembre 1887.
Ed è proprio in memoria dei “Martiri di Chicago” che la Seconda Internazionale, riunita a Parigi nel luglio 1889, proclama il 1° maggio festa internazionale dei lavoratori. Anche in Italia il 1° maggio si inizia a festeggiare nel 1890. Per la prima volta i lavoratori italiani sono chiamati a manifestare tutti insieme, per un obiettivo di carattere generale, in una prospettiva internazionale. Lo continueranno a fare fino alla instaurazione del regime fascista, per poi riprendere questa manifestazione dopo il 1945.
A Modena il 1° maggio 1890 non si svolge alcuna manifestazione: uniche iniziative una riunione dell’associazione degli operai tipografi e la diffusione di un manifesto dell’Associazione operai braccianti di Finale Emilia. Inizia però il lavoro organizzativo, soprattutto da parte socialista, per arrivare preparati all’appuntamento dell’anno successivo. In effetti, pochi giorni prima, nel corso di un comizio promosso il 19 aprile 1891, presenti 400 persone, è approvato un ordine del giorno di questo tenore: “Gli operai della città e provincia di Modena affermano la necessità della riduzione della giornata di lavoro a otto ore per il miglioramento fisico, intellettuale ed economico; e come manifestazione diretta a ottenerla ad affermazione della loro solidarietà coi lavoratori di tutto il mondo nella lotta per la propria redenzione, deliberano di festeggiare il Primo maggio”.
Il 1° maggio sono promosse diverse iniziative. La prima si svolge la mattina alle Case nuove, fuori porta Sant’Agostino, presenti duemila lavoratori, che poi si dirigono verso la città in corteo. Nel primo pomeriggio la conferenza che doveva svolgersi presso il Circolo operaio socialista di via San Paolo è spostata in altro punto della città per le troppe persone intervenute e si forma un altro corteo, con in testa due bandiere, una rossa dei socialisti e una nera degli anarchici. Alle 17 altro comizio nel cortile di Santa Margherita e la sera, infine, nuova conferenza nel Circolo socialista in via San Paolo.
Protagonista della giornata è Vincenzo Bortolucci, presidente dell’Associazione di lavoro fra gli operai braccianti del Comune di Modena, in realtà studente universitario originario di Pavullo (diventerà avvocato), di orientamento anarchico. Infatti, Bortolucci parlerà in tre delle quattro iniziative promosse a Modena e a lui si deve in buona parte l’organizzazione della giornata.
Altre manifestazioni sono promosse a Carpi, Mirandola, Finale Emilia (forse anche a Sassuolo) con discreto successo, ma è sicuramente la giornata modenese a dimostrare il grado di avanzamento della consapevolezza operaia dei propri diritti, stimolando ulteriormente il processo di aggregazione dei lavoratori in organismi sindacali.